Il viaggio silente verso un’Itaca del cuore
È nel buio che l’uomo si barcamena mettendo in campo le sue fragilità. Quelle di un uomo deluso, ferito, emarginato, tra le fauci di una straziante follia e, se il rumore della battaglia, non affievolisce il suo ruggito, basta tapparsi le orecchie per non sentire.
Ulisse comincia il suo viaggio e si guarda intorno per capire cosa stia succedendo. La pandemia. La solitudine. Il disagio profondo di un’anima già duramente provata.
Il suo è un viaggio nel viaggio dell’uomo, un viaggio in cui l’uomo lotta per essere se stesso, per avere il diritto di esistere. Un viaggio tremendamente vero. Come la vita. Come il giudizio! Come il labile confine tra normalità e follia in cui la camicia di forza è prigione.
La società e la sua condanna, una perenne camicia di forza, un attentato alla libertà.
E Ulisse urla, rivendica se stesso attraverso la voce di Paolo, Andrea, Claudia, Fabio e Marina.
La camicia di forza, no! Per carità!
Gesù, com’è che sento le vocine nella testa? Gesù, aiutami a non dar loro ascolto!
Non è un’invocazione agli dei, ma una dichiarazione di aiuto a chi più conosce la sofferenza degli uomini.
La camicia di forza intrappola. E Ulisse, tutti gli Ulisse dimenticati della società non sentono le mani e hanno freddo. Tanto freddo!
Vi prego, aiutatemi! Non lasciate soffocare il mio cuore! Ditemi che sono vivo! Ditemi che sono io!
Ulisse lotta contro i suoi demoni, alla ricerca della verità perché ognuno di noi deve avere il suo universo per proteggersi dalla tristezza, per sconfiggere la paura, per non sentirsi incompreso.
Il teatro patologico partendo dal pathos quotidiano di ognuno lenisce, accomuna, unisce, affratella. In quel senso di profonda comunione e comunità lo spirito di ciascuno si libera…
La solitudine è terribile ed è importante sentire la presenza di qualcuno.
Lo dice anche Andrea che interpreta il ruolo di Calipso. “Mi sento incompreso, la mia parte più intima parla al femminile. Mamma mi capiva e, ora che non c’è più, la sera al buio accendo una lucina e poi mi addormento”.
Scacco matto… l’orrore. Sono io Ulisse. Mi guardo dentro… Un abisso…
E Claudia, una strepitosa maga Circe, ribadisce che da quando ha messo piede nel teatro, ha cominciato ad esprimere se stessa attraverso le maschere, parlando anche con i muri.
Fabio che soffre di crisi epilettiche teneramente ripete: «Sono ricco sfondato. Siccome ho un sacco di amici, ho un sacco di tesori…»
Il tesoro per questa umanità sommersa? Essere accettata e accolta per quello che è, perché le cose che per gli altri sono strane a loro paiono normali ed è nello sganciamento dalla realtà che si sperimenta la massima libertà.
Ulisse ha compiuto il suo viaggio sulla sua zattera fra lidi di estrema fragilità superando gli ostacoli e il suo incontro con Penelope (interpretata da Marina) è straordinario.
Penelope, se solo ci fossimo accorti prima di questo amore, avremmo trovato quiete… Ma se i mostri ci scavano, se le città barricate aspettano di essere aperte… Un uomo deve perdere la strada per poi ritrovarla… Per rinascere un uomo deve prima morire.
Ognuno vedendo questo film compie il suo viaggio. Chi, in fondo, non continua a cercare dentro di sé quel che gli manca? Chi non si è smarrito? Chi non ha tremato nel buio di questa pandemia?
È il dolore di ieri e di oggi, è l’incertezza di domani ma la speranza di una resurrezione resta.
Come affermava Franco Basaglia “la follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia.”
Il problema resta l’inclusione, l’integrazione, l’esasperazione della diversità in quanto tale.
È il tempo che si perde per andare incontro alla vita che rende ognuno speciale. Basta tenderle le braccia. Basta togliersi di dosso la camicia di forza dei pregiudizi. Basta sgranare lo sguardo sul quadro variegato della società.
Nessuno è perdente. Si vince insieme.
Il teatro patologico ha bisogno di essere sostenuto altrimenti rischia la chiusura e, se questo accadesse, tutti i ragazzi speciali che ritrovano se stessi attraverso la recitazione rimarrebbero orfani di un’esperienza di integrazione senza precedenti.
Sarebbe un fallimento per tutti!