«Noi andavam con li diece demoni. 
Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa 
coi santi, e in taverna coi ghiottoni»

(Inferno XXII, vv.13-15)

La commedia degli inganni, iniziata nel canto precedente, continua nel canto ventiduesimo con tratti sempre più comico-realistici e dai toni vivamente farseschi, una sorta di teatro del grottesco all’ennesima potenza.

Basti dire che l’incipit è interamente dedicato al commento della scorreggia con cui Barbariccia aveva dato inizio alla marcia della «fiera compagnia»: già era capitato, al sommo poeta, di assistere a cavalieri che si avviavano al trotto o attaccavano battaglia oppure battevano ritirata, così come gli era successo di vederli protagonisti di giostre e tornei; mai, però, avrebbe potuto immaginare che lo squillo delle trombe e il rullo dei tamburi fossero sostituiti a suon di peti…

Il resto del canto è interamente costruito su una trama di similitudini animalesche, metafore culinarie, termini rari e di grado popolare, con assonanze aspre. Qualche esempio: accapriccia, arruncigliò, sdruscia, in cesso, rintoppo, buffa.

Insomma, Dante è ben lontano dagli schemi, tipici della letteratura moderna, che vedono nel demonio un essere tenebroso e terrificante e mette in scena dei diavolacci umani, troppo umani, che, partiti per gabbare i nostri malcapitati, saranno a loro volta e per ben due volte beffati: da Ciampòlo di Navarra, protagonista del canto, e dagli stessi Dante e Virgilio.

Il primo, che già aveva fatto i nomi di frate Gomìta e Michel Zanche, mentre viene dilaniato, chiede una tregua, promettendo di richiamare in superficie altri barattieri, e approfitta così di un attimo di esitazione dei dieci Malebranche per rituffarsi nella pece e sfuggire ai loro artigli. I secondi, a loro volta, colgono il momento della conseguente zuffa tra demoni per liberarsi definitivamente della sgradita compagnia.

Ne la chiesa coi santi, e in taverna coi ghiottoni mi pare il verso sintesi dell’intera vicenda: tocca andare in chiesa coi santi (almeno così sarebbe auspicabile…) e in taverna con gli ubriaconi e, se Dante è nel luogo in cui il volto e la dignità dell’uomo sono intimamente traviati, nessuna meraviglia se ci capita di assistere a scene tanto mostruose quanto goffe.

Il dubbio è se quelle scene non siano molto più “mondane” di quanto non si direbbe. Intendo: di “questo” mondo, più che “dell’altro”. E ci sarebbe, peraltro, da chiedersi se ci sentiamo più affini ai “santi” che ai “ghiottoni”.

La sensazione, a ripensare a certe scene a noi contemporanee, è che il teatro delle beffe in cui ci muoviamo abbia raggiunto espressioni che persino la fervida fantasia dantesca non avrebbe mai potuto escogitare. Salvo sentirci tutti santi, naturalmente. Decisamente, il grottesco dell’umano!

Però Platone avverte: «Il virtuoso si accontenta di sognare quel che il peccatore realizza nella vita».

E Roberto Gervaso: «Molti moralisti non sono che peccatori senza occasioni».

Infine Eco: «Il grottesco è l’altra faccia del sublime, l’ombra della luce».


FontePixabay reinterpretato da Eich
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La mia fortuna? Il dono di tanto amore che, senza meriti, ricevo e, in minima parte, provo a restituire. Conscio del limite, certo della mia ignoranza, non sono mai in pace. Vivo tormentato da desideri, sempre e comunque: di imparare, di vedere, di sentire; di viaggiare, di leggere, di esperire. Di gustare. Di stringere. Di abbracciare. Un po’ come Odysseo, più invecchio e più ho sete e fame insaziabili, che mi spingono a correre, consapevole che c’è troppo da scoprire e troppo poco tempo per farlo. Il Tutto mi asseta. Amo la terra di Nessuno: quella che pochi frequentano, quella esplorata dall’eroe di Omero, ma anche di Dante e di Saba. Essere il Direttore di "Odysseo"? Un onore che nemmeno in sogno avrei osato immaginare...