
Non è tempo di nerd
L’Istat ha registrato numeri spaventosi sull’occupazione italiana. Il 2020 ci ha consegnato il numero di 456.000 occupati in meno. Cresce a 13,7 milioni il numero di coloro che non cercano lavoro e sentono di non avere più grandi speranze. Dopo aver tessuto le lodi su alcuni dei curricula professionali dei big governativi nazionali, è giunto il momento in cui tanto chi commenta quanto chi fa “la” politica deve togliere i guanti di seta, anche nello scrivere. La nuda pelle saprà meglio umanizzare l’azione attraverso la comunicazione.
La Repubblica italiana – si sa o, meglio, si sapeva – è fondata sul lavoro, ai sensi e per gli effetti poco effettivi dell’articolo 1 della Costituzione.
I pacchetti ideologici del passato, nella loro lotta spesso inconsistente tra comunisti e pro-capitalisti, non hanno funzionato e oggi non riescono più a delineare un’idea certa, definita o prontamente definibile di alternativa socioeconomica attraverso la politica.
Le distorsioni del capitalismo della post-modernità, in un instabile divenire, non potranno essere curate da nebulose lotte di classe o fra classi, anzi ormai dannose, stando così le cose della storia che avanza. Quelle distorsioni però non potranno nemmeno essere curate da una mera cultura ipotecaria generale di austerità sul futuro, né filo-bancarizzando gli Stati. Non era questo il senso della tanto auspicata rivoluzione liberale per le libertà. Non era questo il senso di quei liberisti libertari resi minoritari dalle strutture delle partitocrazie.
Fino a non molto tempo fa – ma ormai sembra storia – le sensibilità e gli umori dei circoli e dei ritrovi politici, fra la gente, associavano il principio di libertà economica al centrodestra e il valore dell’uguaglianza nonché la tutela della busta paga dei lavoratori subordinati alla sinistra. Ai Cinque Stelle, intervenuti nella fase terminale di queste classiche associazioni mentali sui valori politici, è spettato il ruolo di contenitore dei malcontenti vari ed eventuali, di alternativa ecosostenibile in concorrenza con i più radical Green, e poi di forza liquida capace di scorrere ed arrivare nei punti in cui i macigni altrui avevano lasciato vuoti degli spazi evidenti, all’interno dello scatolone duro della mamma politica. Il peccato originale dei grillini consisteva nell’aver condito le proprie pietanze con una salsa assistenzialista, la quale più che di eguaglianza sociale personologica ha il sapore dei meri sussidi di cittadinanza senza piani di sviluppo.
Fuori da ogni accattonaggio di valori, il politichese deve farsi da parte quando si tratta di guardare in faccia le realtà esistenziali di tutti quei 456.000 occupati in meno nell’èra-Covid. Oltre la corteccia del politichese, rattoppatore e chirurgo-plastico, deve emergere nonché affermarsi la politicità, innovativa ed edificante.
Il grembo delle necessità sociali è gravido e maturo nella propria consapevolezza di non farcela più; il parto di una nuova stagione di libertà condivise non può essere rimandato. Le acque potrebbero rompersi da un momento all’altro.
Occorre strutturare subito una lunga serie di campagne che mettano in relazione dinamica e realizzativa la dolente offerta di lavoro alla timida domanda di esso. Occorre ripartire dalle scuole, dalla capillarizzazione delle attività di formazione professionale che registrano sbocchi più sofferti. Occorre un metodo di promozione della inter-relazionalità giovanile dopo circa un biennio di aborto scolastico-relazionale di fatto, con le scuole che aprono e chiudono. Occorre, in ciascuno e a seconda dell’ego in movimento di ognuno, riaprire l’essere al suo miglior poter essere, in società. Sì, anche gli aspetti della psicologia sociale sono importanti per far ripartire il Paese. Volendo mettere un po’ di peperoncino genuino (oltre all’immancabile sale) nello scrigno portavalori della ragion critica, si può dire che proprio non è il momento di mettersi a fare i piccoli nerd? Sì, si può dire, nonostante ed al di là delle tante spiagge del politicamente corretto.
Internet è un universo meraviglioso di opportunità quale mezzo per fare le cose. Non possiamo però ridurre la vita esistente ad una narrativa mediatica sull’esistito. Non possiamo vivere nel “bello della diretta” cibernetica, ch’è bellezza in quanto dura poco, tra un’avventura e un’altra del proprio sé con gli altri, dal vivo.
Social e liquidi sulle app, monadi acute là fuori: sono questi i nuovi giovani formatisi durante due anni scolastici fondamentali per la propria identità?
L’immobilizzazione psico-sociale di tanti italiani in serie difficoltà psicologiche ed economiche sta prevalendo sull’iniziale spirito di relativizzazione delle avversità da affrontare.
Lo spirito umano è determinato dalla sua stessa mutabilità, in relazione intermittente con il mondo vivo che gli convive sinergicamente intorno.
Relativizzare ed isolare le difficoltà, per provare a darsi una soluzione di reazione propositiva al malessere, appare molto più arduo per tutti quegli italiani che da più di un anno stanno tentando di lavorare su se stessi, nell’instabilità generale delle riprese. E intanto le belle immagini di riapertura e libertà da Israele e da alcuni Paesi americani mettono a dura prova la fiducia verso la capacità di problem solving di chi governa in Europa.
Il protrarsi del disagio diminuisce la capacità psicologica di momentizzazione delle restrizioni alle proprie libertà, alle proprie aspirazioni lavorative, realizzative, socio-ambientali.
Come si sgranchiscono i muscoli del corpo, la mente vuol sgranchire le opportunità di salvare la vita in sé. Quei 456.000 disperati in più che popolano l’Italia hanno diritto ad una prospettiva concreta, come tutti. Se non è tempo di utopie, è tempo di riformismi liberali, virtuosi, rivoluzionari; e soprattutto veri.
Senza l’esercizio concreto delle libertà gli individui che fanno cultura, economia, socialità dal vivo per rimanere vivi, materialmente e spiritualmente, rischiano di perdere la propria pace. Gli equilibri sociali perdono la giustizia, se privati della propria pace.
Non c’è vera libertà senza giustizia, nel riparto di opportunità tra lavoratori del pubblico e lavoratori medio-piccoli del privato. Senza l’esercizio delle libertà pe’ campa’ aumentano le diseguaglianze sociali. Insomma, un cane incatenato che si mangia la coda. Non sarà il caso di togliere quelle catene con tanti buoni auspici liberali di massima economizzazione, stimolando i profitti?
Forse un po’ di autocritica non farebbe male ad un sistema pubblico atrofizzato che potrebbe esternalizzare i propri bacini produttivi inefficienti, abbassando così le spese pubbliche nei settori incapaci di produrre un misurabile benessere condiviso. Conseguentemente, potrebbero diminuire i prelievi fiscali in surplus, che si accaniscono sulle già provate tasche degli italiani in odore d’ipersensibilità socioeconomica.
[…] L’ipocrisia della pace senza libertà economica […]