Che accade se le parole di un ministro offendono l’umanità…
Nessuno di noi possiede ricette miracolose per risolvere il problema delle grandi migrazioni che stanno interessando l’intero pianeta. Tempo fa fu chiesto al Dalai Lama di pregare per la soluzione di questo problema, e sua santità rispose, con l’inconfondibile sorriso insieme ironico e intelligente che lo contraddistingue: «Non c’è niente per cui pregare, è un problema che hanno creato gli uomini e spetta agli uomini risolverlo».
Gli enormi spostamenti umani cui stiamo assistendo sono semplicemente il sintomo di un male molto più grande che è l’abissale divario tra popoli ricchi, che ammontano a circa l’undici per cento della popolazione mondiale, popoli in cui le persone hanno cibo più che sufficiente, hanno scuole, ospedali, sicurezza sociale, diritti, tutti quei benefici di cui gode l’Occidente, e popoli poveri, dove non esiste sicurezza del cibo, dell’assistenza medica, non esiste certezza dei diritti, popoli spesso dilaniati da guerre civili, da pesanti discriminazioni religiose, etniche, dove vivere è davvero difficile.
È sorprendente notare come i governi siano preoccupati e interessati a curare il sintomo, e nessuno si sia mai preoccupato di cercare una strada che possa tentare di colmare l’enorme distanza che separa la parte ricca dell’umanità da quella povera e poverissima. La realtà è complessa e complicata, e pensare di risolvere questi problemi semplicemente respingendo le navi, o erigendo muri, o stendendo fili spinati, o prendendo a cannonate i barconi o elettrificando il mare, è davvero ridicolo.
Per l’Italia rappresenta certamente un problema, sebbene non sia una vera emergenza, essendo le emergenze il lavoro ai giovani, le pensioni, una sanità ormai allo sfascio e che funziona solo per i ricchi, l’evasione fiscale, la corruzione. Tuttavia ormai viviamo il problema dell’immigrazione come fosse un’emergenza, bombardati da continui proclami, minacce, un clima che induce alla paura e all’odio buona parte della popolazione, quella meno attrezzata culturalmente.
Le soluzioni toccano alla politica, ma siamo convinti che soluzioni ispirate dall’odio, dall’intolleranza, siano sicuramente sbagliate. Così quando il ministro dell’Interno della nostra Repubblica il 5 giugno di quest’anno ha pronunciato la famosa frase “la pacchia è strafinita per chi ha mangiato per anni alle spalle del prossimo, ci sono 170 mila presunti profughi che stanno in albergo a guardare la tv”, personalmente ho avvertito un moto di ripulsa davanti a parole così gravi pronunciate da un ministro della Repubblica e riferite a disperati che attraversano i mari e spesso vi affogano, ho sentito una mancanza di rispetto per esseri umani in tutto uguali a noi, soltanto nati nella parte sfortunata della terra, un pensiero superficiale, rozzo, una ignoranza nei sentimenti che mi è venuto spontaneo reagire scrivendo una poesia dal titolo “Rumba della vera pacchia”.
Insieme ad altri autori dirigo una rivista di poesia, Versante ripido, che ora è anche associazione culturale, fin dal 2012. Mi è sembrato opportuno condividere questa poesia negli spazi facebook della rivista, e subito si sono accodate le opere di altri poeti che avevano istintivamente avvertito lo stridore terribile di quella frase, la sua evidente falsità, la mancanza di umanità nei confronti di persone offese già da un destino avverso.
In pochissimo questa reazione di istintivo sdegno e presa di posizione ha coinvolto trentacinque autori. I poeti hanno il compito di essere la voce critica della nazione, di rappresentare non solo la proposta estetica, ma anche la coscienza etica di un popolo. A quel punto Claudia Zironi, che è una delle fondatrici di Versante ripido, ha pensato che questa voce collettiva dei poeti dovesse vedere la luce e testimoniare una contrarietà, l’opposizione ferma di quella parte di popolazione che antepone il rispetto delle persone e la cura delle persone e la vita delle persone, a qualsiasi ragione di stato, a qualsiasi PIL, a qualsiasi menzogna del potere.
Così è nata l’antologia “La pacchia è strafinita”, a cura di Versante ripido, che finora è stata presentata a Imola, a Bologna, e sarà presentata in moltissime città italiane, e anche a Bisceglie, all’interno della rassegna Libri nel borgo antico, il 26 agosto prossimo, e a Barletta, in luogo e data ancora da definire.
All’interno dell’antologia sono presenti quattro autori barlettani, Paolo Polvani, Rita Ceci, Francesco Prascina, Francesco Paolo Dellaquila, due autori ruvesi, Luana Lamparelli e Vincenzo Matropirro, un autore barese, Franco Intini, e poi autori di ogni parte d’Italia, e un poeta iracheno, Gassid Mohammed, professore di lingua e letteratura araba nelle università di Macerata e di Bologna.
L’intento di questa antologia non è fornire una soluzione al problema delle migrazioni, ma sottolineare quanto siano importanti le parole, quali enorme carica posseggano al loro interno, e come sia pericoloso cedere al ricatto della paura e dell’odio, della intolleranza e della ignoranza.
Di seguito proponiamo alcuni testi:
Rumba della vera pacchia
La prima vera vera pacchia è ignorare la complessità
le implicazioni le complicazioni la concatenazione delle
cause
e sì, una grande pacchia l’attraversamento dei deserti
quando
l’unica prospettiva è guardare il muro della fame e
aspettare
soltanto di finire, ah che pacchia pacchia quando il mare
t’inghiotte
e ti risucchia e ti risputa in forma di poltiglia, in placche
di carne e ossa che l’acqua spolpa in sussurri, in gargarismi
e garruli rigurgiti che pacchia pacchia prendere l’umanità
e pestarla, calpestarla, frantumarla che tanto noi c’abbiamo
l’acqua
e c’abbiamo filo spinato quanto basta e c’abbiamo il grido
delle truppe e i voti e gli stendardi e i baluardi e i crocifissi
da appendervi voi tutti che invece c’avete soltanto fame e
occhi
disperati e che pacchia pacchia non avere neanche un
piccolo orto
per piantarci i semi del rimorso che pacchia ignorare
il pianto delle madri che pacchia il pil che sale e il sale
che incrosta le ossa in fondo al mare che pacchia i
respingimenti
se te ne stai al sole e sei in vacanza che pacchia dire
ma questi tutti col telefonino e certe pretese e certa fame!
che pacchia affilare le armi e sprofondare dentro sonni
tranquilli
che pacchia il buio e la ferocia senza pentimenti che pacchia
questa tremenda notte che c’inghiotte
Paolo Polvani
- * * * *
Pacchia bambina
Aylan, Sajida, venite
di biscotto è la barca sul mare
caramello le vele ed i remi
cioccolato la stiva e i sedili
È una pacchia una pacchia davvero
acqua fresca ed arance per tutti
non tremate son solo dei flutti
e tra poco farete gluglùùù
Ma dai, c’è la mamma balena
e papà pescecane che gioca con te
che pacchia sarà tutto un trito
poltiglia in pastiglia la pappa sarà
Si gioca alla pesca del mare
le reti son piene di già
calzoncini dai mille colori
sandaletti spaiati a metà
Quando poi siete stanchi alla riva
sonni eterni potrete dormire
far la nanna definitiva
una pacchia da far impietrire.
Rita Ceci
- * * * * *
Pacchia l’ho cercata sul vocabolario consumato dalla mia
voglia di imparare.
“Condizione di vita piacevole, senza preoccupazioni o
problemi”
ho letto e subito dopo ho stretto i pugni e le mascelle fino a
farmi male.
Ho rivisto mia madre che piange per la mia partenza, lo
sguardo velato di mio fratello più piccolo che trattiene le
lacrime, perché gli ho insegnato ad essere forte. Ho
rivissuto il momento in cui ho imbarcato i miei sogni e il mio
corpo come bagaglio necessario. Ho riascoltato il pianto dei
bambini, la nenia sfinita delle madri, il tonfo dei corpi
gettati in mare. Il mio naso si è riempito nuovamente
dell’odore di nafta, di morte, di escrementi e piscio.
Mi sono visto ancora sul dorso della notte, mentre i miei
occhi chiedevano di respirare oltre quel velo nero che aveva
inghiottito il giorno. Mi sono ricordato che al confine con il
nulla il tempo batte afono e non misura la distanza
dall’alba.
Mi è sembrato di ascoltare preghiere raccolte su labbra
bruciate dal sale, dal sole.
Poi ho chiuso il vocabolario e sono andato a
spaccarmi la schiena per 3 monete all’ora, perché mio padre
mi ha insegnato a custodire la mia dignità. E per la dignità
mia e dei miei fratelli mi sono sempre battuto, prima che un
fragore mi portasse via, mentre
stringevo un pezzo di lamiera e questa vita
amara che non è stata pacchia mai.
Francesco Prascina
- * * * * * *
La pacchia… è finita la pacchia…
La pacchia… è finita la pacchia…
da questi o da quelli adesso avranno o daranno altro,
o forse nulla.
La pacchia attraversa la stanza da parte a parte
c’è il canto del passero che di pacchia vive
soprattutto al mattino
come c’è anche la pacchia di chi beato
dorme in carrozzino,
così come la pacchia di quelli che stanno sul pelo del mare
che pure pacchia è per dondolio di morte tutta e
solo per loro.
Ma meglio ancora sarà pacchia festaiola per i pesci
che famelici non sono solo loro
ma anche quelli che per tanta pacchia faranno soldi.
Pacchia, pacchia, che pacchia è quella nera
che lascia la terra nera
e trova una pacchia nera sotto i ponti senza sostanza
e senza sosta.
Poi c’è anche la pacchia dell’ingegnere lavavetri che Paolo
chiama Aziz,
ed ancor più c’è la pacchia, quella invisibile,
una pacchia meravigliosa, sconosciuta e silenziosa,
ed è quella pacchia che si gode nei gesti dei clochard
sotto le arcate a Palermo, Milano, Torino, Roma
e ovunque e dovunque.
Nessuno la vede e la sente,
è una pacchia di vita sotto le arcate costruite apposta
per fare la pacchia!
La pacchia… è finita la pacchia…
Francesco Paolo Dellaquila
Prepariamoci a una lunga Resistenza, in un Paese che non riconosce il fascismo perché ha perduto la Memoria.