“Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”
La legge italiana, la L. n. 194/1978, già nella propria denominazione formulata dal legislatore storico della fine degli anni ’70 del secolo scorso si esprime nei termini seguenti: “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”. Se si arresta il proprio rimirare cognitivo alla prima parte, che menziona, propina e prescrive la tutela sociale della maternità, come bene della vita positivizzato appartenente ad una dimensione sociale, quasi metastatualistica, si potrebbe rilevare, da un lato, il sistemico aggancio con la prescrizione costituzionale di cui all’art. 31 Cost., comma 2, prima parte, ove si statuisce che la protezione della maternità è affidata alla Repubblica (la quale, poi, ai sensi della successiva legge costituzionale n. 3/2001 di riforma del Titolo V, Parte II, e quindi anche dell’art. 114 Cost., è costituita dallo Stato, dalle Regioni, dalle Città metropolitane, dalle Province – allo stato attuale comunque ancora presenti nella Carta costituzionale – e dai Comuni). Se invece, dall’altro lato, si legge quella teleologizzazione delle norme di cui alla L. n. 194/1978 sul versante della tutela sociale della maternità, e non della tutela sociale della maternità coscientemente autodeterminata, a rigor di ermeneutica concettuale, potrebbe intendersi la vocazione legislativa del ’78 come ancora metapaternalistica, ove lo statuale publicum pater familias della generalità delle consociate – uniche detentrici della meravigliosa, eccelsa ed antropicamente utile funzione biologico-esistenziale della gestazione – assorbe la facoltà giuridica, autodeterminativa, della interruzione della gravidanza della donna in una (comunque) primaria dimensione di ordine sociale, exsenon attinente alla sfera del volontarismo della eventuale mater, volontarismo riconoscibile e garantibile giustamente entro i limiti anzitutto temporali in cui l’esercizio del diritto risulta ex lege consentito.
Il riferimento della formula legislativa alla “interruzione volontaria della gravidanza” è servito a bilanciare questa economia nomologica molto social, e a farla propendere sui versanti filosofici del volontarismo, e con esso dell’autodeterminazionismo libero e cosciente del diritto, delle scelte che il diritto consente, della pregnanza oggettiva oltre che soggettiva del valore supergo della vita in potenza, dei motivi per cui si potrebbe scegliere in un modo anziché in un altro, e dei binari motivazionali riconosciuti dalla legge per addivenire alla interruzione della gravidanza.
Della legge italiana n. 194 occorre valutare l’art. 1, il quale dispone in generale che lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio (la tutela della vita umana sin dal suo inizio non rappresenta affatto una antitesi alle teorie autodeterminative, le quali solitamente hanno alla base un grande rispetto per il dono che la natura ha recato nell’essere donna biologicamente sin dalla nascita); il secondo comma del primo articolo continua disponendo che l’interruzione volontaria della gravidanza non è mezzo per il controllo delle nascite. Sull’auspicabilità di una autodeterminazione personale ad incidenza demografico-sociale e socio-antropometrica generale, da parte e ad opera delle donne insocietas, in passato, si era espressa una parte dell’universo movimentista di stampo femministico, in seno al quale, invero, si respirava ogni tanto qualche antipatia nei confronti della lezione malthusiana che, avendo isolato quale problematica causativa dell’incremento pauperistico e della fame l’incremento demografico, propinava quale farmaco sociale la diffusione di pratiche volte alla riduzione dell’aumento naturale della popolazione attraverso strumenti anticoncezionali, onde evitare catastrofi nell’ecosistema e la soppressione “innaturale” delle risorse energetiche non rinnovabili.
Il lascito dottrinario delle teoriche malthusiane è stato seguito de jure in Paesi come la Cina, ove la legge “sanzionava” la messa al mondo di più di un figlio, legge rivista alla fine del 2015, con il risultato conseguente per cui odiernamente risulta possibile mettere al mondo il secondo figlio senza problemi di rispetto del regime di controllo pubblicistico delle nascite.
Varie volte nella storia si sono verificate spinte all’incentivo alla quantità genitrice, talvolta per garantire una forza-lavoro al capitalismo industrializzato, altre volte per ragioni di fasto o di cultura, anche di matrice religiosa, od anche per garantire un infoltimento delle schiere militari nei periodi di corsa agli armamenti, materiali e antropici. La legge italiana del 1978, a rigore, nel suo prospetto iniziale di cui all’art. 1, prende espressamente le distanze da tale più penetranti ed invasive logiche statocentrico-determinative. Si ricordi, per completezza, l’esistenza dell’associazione radicale laicista “RientroDolce”, la quale potrebbe esser qualificata come un’associazione connessa ad un pensiero laicistico di matrice non pubblicistico-determinativa (quindi non del tipo “lo Stato deve tendere ad un rientro indeminutionedelle nascite”) bensì volontaristico-autodeterminativa, rispettosa della volontà delle donne, nell’ottica – e nell’etica metalibertaristica – dell’universo radicale tradizionale.
Di diverso avviso sarebbero eventuali orientamenti di tipo ecofemminista che potrebbero agitarsi in seno ai movimenti femministi sopravvissuti alle stagioni degli anni ’70 dello scorso secolo e ancora attivi in una società che sempre più richiede nuove battaglie di respiro globalmente ed internazionalmente interconnesso e transnazionale? Come conciliare il pensiero personologico-individualistico di realizzazione dell’egodella donna insocietasproprio come la stessa donna, e soltanto la donna stessa, vuole, con le esigenze di interesse generale ed anzi diffuso ad un equilibrio ecologico-antropologico sostenibile ed istituzionalmente propinabile?
Se la questione del dominio delle nascite debba essere lasciata alla promozione propagandistica governativa sul modello del cosiddetto “fertility day”, in modo un po’ approssimativo e generico, decontestualizzante e conseguentemente disorientante nel rapporto tra governanti e governati da un lato, e tra governati e difficoltà economiche della vita effettiva e della quotidianità esistenziale, dall’altro lato, costituisce un quesito che la cosiddetta classe dirigente non può non porsi. Se la questione del dominio della propria sfera personale utisinguladella donna in quanto donna, lavoratrice o soltanto casalinga a sua scelta con le proprie eventuali aspirazioni anche di madre o di eventuale coniuge, sia una questione che naturalmente e culturalmente debba o possa essere annessa – e con un grado di rispettosità similreligiosa per la serenità incondizionata nella formazione libera della coscienza e della scelta di vita di ogni persona – ad una dimensione pubblicistica che anela al rispetto delle esigenze oggettive dell’ecosistema, in cui l’essere umano vive e da cui l’essere umano trae continuità e perpetuazione esistenziale, nel pratico svolgimento del suo tempo psicobiologico unico e irripetibile, costituisce una domanda che la politica del diritto non deve sottovalutare.