Una carta costituzionale non è parola morta e lascia sperare anche quando i fatti la smentiscono

«La repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale e spirituale della società»: è l’articolo 4 della nostra Costituzione. Parole vuote, inutili secondo alcuni: dov’è il lavoro? Basta che questa parola rientri in una carta costituzionale per avere certezze a riguardo? Forse no.

Certo, di strada se n’è fatta da quando nelle fabbriche della rivoluzione industriale il lavoro era una vera e propria schiavitù. Per non parlare, poi, della barbarie di Auschwitz, sul cui cancello d’ingresso la parola lavoro campeggiava e campeggia ancora, paradossalmente, come promessa di libertà, in quella scritta che rimarrà sempre una delle menzogne più grandi della storia.

Una carta costituzionale non è parola morta e lascia sperare anche quando i fatti la smentiscono. Si può fare di più? Certamente. Tutte le volte che nelle fabbriche, o nelle campagne, o nelle case, o nelle scuole si svilisce la dignità di un lavoratore nei modi più diversi (dall’illegalità alla non puntualità del pagamento, dall’insulto verbale finanche all’aut aut lavoro-famiglia) e manca del tutto quella crescita materiale e spirituale auspicata, di lavoro non si può parlare.
Il figlio prodigo della parabola di Luca lo sa: costretto ad una sussistenza di fortuna come mandriano di porci, nudo e affamato, si rende conto di quanta fortuna abbia, rispetto a lui, pure l’ultimo servo della casa di suo padre. Perché non conta la posizione lavorativa e sociale, conta se siamo trattati e ci facciamo trattare come persone non disposte a svendersi pur di guadagnare.

Certo, dove le necessità sono impellenti si è disposti anche a sopportare l’umiliazione e lo sfruttamento. Ma in linea di massima bisognerebbe essere capaci di una sana ribellione, sia quando si è schiacciati sia quando la promessa di un lavoro si gioca sul do ut des di un favore elettorale, oppure si impernia sulla raccomandazione, umiliante nella misura in cui alleggerisce dalla fatica della conquista personale.

Il lavoro è fatica; l’etimologia della parola, dal latino labor, lo dice. Per cui nessuno può semplicisticamente dare pareri sulla questione denunciando una mancanza, soprattutto se non ha fatto tutto il possibile, incluso lasciare le comodità di casa e gli affetti della propria terra sull’esempio di tante generazioni che ci hanno preceduti. Non che la prospettiva di andarsene sia completamente giusta e semplice da accogliere; ma la realtà globalizzata è caratterizzata, ormai, da una grossa mobilità e soprattutto alcuni settori lavorativi impongono la scelta di partire. Cercare di far finta di nulla e costruire mondi ideali non ci porterà lontano.

Come sempre le parole, se non prospettano soluzioni, perlomeno accarezzano con significati inediti. Lavoro non è legato solo a labor, ma anche alle radici sanscrita labh e rabh, ossia afferrare oppure, in senso figurato, orientare il desiderio. Ci si può lasciar afferrare dal lavoro e farne l’unica ragione di vita, oppure se ne può afferrare voracemente il giusto tornaconto economico come unica finalità; ci si può far afferrare dalle ingiustizie e subire situazioni umilianti o si possono afferrare gli altri e sfruttarli senza pietà. Se il rapporto con il lavoro resta imbrigliato nel senso letterale del termine siamo ancora fuori strada.

Il riscatto di ogni lavoratore corre sulla via del desiderio: desiderio di sostentamento per sé e per le persone amate; desiderio di fare più bello il mondo; desiderio di lasciare tracce di bene nelle inevitabili relazioni implicate in un rapporto lavorativo; desiderio di stare nelle situazioni e di cercare ancora, sempre e nonostante tutto. Ma il desiderio attecchisce dov’è accolta una mancanza e, come suggerisce la parola, quando si sa levare il capo in alto per contemplare le stelle (sidus) e sentirsi sempre debitori di qualcosa e bisognosi di gratitudine.

Si può lavare a terra il pavimento di una stazione di servizio con molta più grazia e bellezza di quanto non si sieda in parlamento o in tribunale: quello che conta al lavoro è essere ciò che si fa, trasmettere emozioni alle produzioni, considerarsi depositari di gesti dei quali qualcuno, da qualche parte se non proprio di fronte a noi, ha disperatamente bisogno per essere ciò che è chiamato ad essere, per imparare ad alzare a propria volta lo sguardo, desiderare la propria stella e dire: «sì, da grande sarò questo!».

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FontePhoto credits: Michela Conte
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Sono un'insegnante, anche se il più delle volte sono io quella in-segnata dai miei studenti. Sono una ricercatrice, perché cerco piste di rilevanza pubblica per una materia troppo fraintesa e troppo di nicchia: la teologia. Sono una giornalista e faccio cose con le parole. "Quello che non ho è quel che non mi manca" (F. De André) e sono immensamente grata alla vita perché, non senza impegno e sacrificio, "ho trovato amore nel mezzo de la via, in abito legger di peregrino" (Dante Alighieri, Vita nova)