
Il con-tatto è vitale per ogni uomo e donna, riveste un ruolo primario nella vita sociale; alla nascita è il senso più sviluppato e contribuisce in maniera determinante all’evoluzione del pensiero, del cervello e allo sviluppo dei legami interpersonali.
Il con-tatto non solo è la forma di comunicazione più primitiva, ma anche la più intensa e immediata. Erri De Luca scrive: “Dei sensi il tatto è quello più bisognoso di avvicinamento. Deve toccare per ricevere. In cambio, rispetto agli altri sensi non ha una sede sola. È sparso sull’intera superficie. Il tatto sa gustare l’impalpabile di una brezza, l’avviso della fiamma, l’assedio del gelo, l’accostamento lento di due amanti fino allo sfioramento. È il più elettrico dei sensi, il primo che si sveglia nel grembo della madre, fratello maggiore degli altri”.
Forse più degli altri sensi, il tatto rinvia alla nostra umanità e alla nostra finitezza, all’argilla o alla carne di cui siamo fatti. Essere dotati di tatto significa essere capaci di soffrire e godere, piangere e gioire.
E significa capacità di accoglienza. Solo chi sa entrare in contatto può accogliere. Incontrare e salutare una persona che è appena arrivata serve a trasmettere benevolenza, simpatia, attenzione rispetto, ma soprattutto premura. L’accoglienza, che inizia con una stretta di mano o un abbraccio, prima ancora di essere un modo concreto per ospitare qualcuno o per dissetarlo, sfamarlo, fornirgli viveri per il viaggio, è avere cura dell’altro con interesse solerte a tutta la sua persona.
C’è in pratica una sacralità dell’ospite che non è legata al ruolo sociale di quest’ultimo, ma che è vincolata a una visione religiosa dell’altro. Lo testimoniano le parole di Nausicaa che nel sesto libro dell’Odissea, vedendo Ulisse naufrago sulla spiaggia, si rivolge alle sue ancelle dicendo: “Questi è un infelice, giunge qui ramingo. Bisogna prendersi cura di lui, ora: che vengono tutti da Zeus, forestieri e mendichi e un dono anche piccolo è caro”.
Chi accoglie, solidarizza con l’altro. La solidarietà conduce alla comprensione che si fa condivisione. La condivisione conduce alla trasmissione di vissuti, di scelte, di ideali. Dal “trasmettere”, nel senso di imbandire una tavola, si arriva alla comunione, si entra in con-tatto.
La comunione tra gli uomini esige, dunque, il contatto con la pasta di cui è fatto l’uomo, senza contatto reale non si dà comunione, non si rende viva l’esperienza dell’accoglienza nella propria esistenza.
L’esperienza del contatto con la vita dell’altro inventa anche la reciprocità. La reciprocità chiama l’uomo e la donna a un cammino particolare, ad afferrarsi per mano e sentirsi bisognosi di gesti umani e non artificiosi a costruire una rete dove la tela è stretta ed è capace di eliminare le paure insite in ogni uomo e donna, rendendo l’umanità libera da pregiudizi, solitudine e personalismo.
Un cammino a con-tatto con la vita è uscire, avere il coraggio di contaminarsi e cambiare, un convertirsi continuo delle proprie certezze che rendono statica la bellezza della vita.
Ancora, l’esperienza del contatto insegna che l’attenzione per il prossimo non è utopia, mera teoria, ma realtà concreta e incarnata in un cuore che ascolta, in un volto che sorride, in una stretta di mano che sa di rinascita.