Una parola per riassumere il pontificato di Francesco

Sono passati vent’anni dalla morte di Karol Wojtyla.

Era la seconda Domenica di Pasqua, quella che la Chiesa chiama in Albis. La sua agonia fu la riproposizione della stessa sofferenza del Cristo morente, un Servo di Jahvè contemporaneo che aveva dato un alito di nuova vita alla Chiesa, nave spesso in balia delle tempeste e dei flutti della storia. Era il 2 aprile 2005, periodo forte dell’anno liturgico, tempo di Pasqua.

Tante similitudini con la scomparsa di Papa Francesco sembrano profilarsi sulla narrazione di queste prime ore.

È stato il Cardinal Farrell con un comunicato commosso a dare l’annuncio della morte del Vescovo di Roma, del Capo della Chiesa cattolica, della guida spirituale della Chiesa negli ultimi dodici anni.

Tante quindi le analogie con la morte di Giovanni Paolo II. Se ricordate, Wojtyla aveva vissuto l’ultima Settimana Santa mostrando tutta l’umanità della sua sofferenza, la difficoltà di poter esprimere a parola una vicinanza spirituale che si avvertì più forte, amplificata dal ricordo della Passione e Morte del Cristo. Oggi la Chiesa rivive quei giorni nelle stesse modalità. Il suo Pastore ha sofferto, ha trascorso gran parte del periodo di Quaresima in ospedale, ha abbracciato senza remore e paure la croce della sofferenza rifiutando di dar credito a voci che lo volessero dimissionario, mentre la sua stessa voce flebile ha spezzato illazioni e false voci su una sua possibile morte. Come Giovanni Paolo II è salito fin su al Calvario, con quella tempra spirituale che solo i grandi uomini hanno. Ieri ha avuto la forza di presentarsi alla benedizione pasquale Urbi et Orbi, rincuorando coloro che tanto si erano preoccupati per la sua salute ma regalando, a noi, ignari delle pieghe degli eventi, l’ultima apparizione pubblica.

Non si è risparmiato in questo mese difficile.

Le crisi respiratorie in ospedale ne hanno minato il fisico già provato, ma è andato avanti, ha indurito il volto così come fece il Cristo salendo a Gerusalemme per la Pasqua, la sua ultima Pasqua.

Francesco è stato rivoluzionario.

Nella comunicazione, in primis, mi verrebbe da dire e non si tratta soltanto di “frequentazione” dei social. Si presentò come il papa che veniva dalla fine del mondo, da quel Sudamerica dove teologia e rivoluzione fanno rima, definendosi vescovo di Roma, apertura ecumenica che forse ai più sfuggì.

I primi tempi del suo pontificato sono stati vissuti nel segno di un rinnovamento palpabile. Scelse Francesco in onore dei due grandi santi del passato che hanno segnato la sua vita sacerdotale, Francesco Saverio, gesuita come lui, e San Francesco d’Assisi dal quale ha preso spunto per il suo impegno costante nei confronti della tutela del Creato.

Non è stato amato da tutti.

I tradizionalisti l’hanno spesso criticato per le sue scelte e le sue parole.

Al centro del suo pontificato una parola, misericordia, già espressa nel suo motto Miserando atque eligendo (avendone pietà, lo scelse). “Chi sono io per giudicare” disse una volta parlando dei gay attirandosi le ire dei suoi detrattori.

C’è una parola che può riassumere il suo pontificato, che racchiude la sua umanità che è stata pronunciata da un giornalista stamane nell’edizione straordinaria: teopatia. Ha incarnato questa dimensione umana e cristologica declinandola con il suo temperamento e la sua passione evangelica. Non ha mancato di fare sentire la sua opinione sulle guerre in corso. Possiamo dire che fu profetico il suo riferire di una terza guerra mondiale a pezzi, perché quelle tensioni sopite sotto la cenere stavano per esplodere nei conflitti che conosciamo. Ha pregato per la martoriata Ucraina, per i palestinesi e gli israeliani, in nome della pace. Si poteva non essere d’accordo con il suo punto di vista, anch’io personalmente non ho sempre accettato il suo pensiero su alcune situazioni e l’ho espresso anche su questo Magazine. Qualche volta non è stato chiaro nelle sue posizioni, come è avvenuto nella questione sull’omosessualità, dove ha creato un po’ di confusione tra le varie parti chiamate in causa.

Sicuramente si è appellato meno al dogma dell’infallibilità del successore di Pietro ponendosi in ascolto di tutte le posizioni e le opinioni. Memorabile potrebbe essere a riguardo la sua corrispondenza con Hans Küng.

Francesco lascia un’eredità importante, difficile da colmare soprattutto per la Chiesa che dovrà misurarsi con un mondo in continuo cambiamento. È una questione vitale per il futuro del cristianesimo. Francesco ha aperto un solco importante tra il passato e il futuro del pontificato, uno stile che è già diverso da quello dei predecessori, a partire già dalle scelte quotidiane come ad esempio quella di dimorare a Casa Marta e quelle relative alla stessa celebrazione del funerale.

Le sue spoglie mortali riposeranno nella Basilica di Santa Maggiore, laddove alla sua tomba è già pronta da due anni, perché l’attesa dell’incontro col Signore era stato preparato già da tempo, come chi è conscio di “aver combattuto la buona battaglia, aver terminato la corsa, per aver conservato la fede.”


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