Novella, dal libro non pubblicato: “La Pazienza e la Ragione”
Scalare in solitario un’alta vetta, occorre esser preparati all’esercizio e, prima di ogni cosa, essere determinati a procedere nell’azione, senza investire in tentennamenti, paure, stati emotivi e via discorrendo. Prendere una decisione vuol dire che si è ben preparati ad affrontarla, a sopperirne le situazioni che si presenteranno, senza lasciar nulla agli intoppi di percorso, agli sconosciuti scogli sommersi o, di contro, agli “iceberg” memorizzati con l’esperienza.
Altro è che sia il fato, o la nostra distrazione a creare gli ostacoli inimmaginabili per la non riuscita dell’impresa. In questi casi ci si rimette nelle mani del Signore. Affiancarsi con la “Fede”, sicuramente aiuta nel percorso e libera, positivamente, quello stato di solitudine dell’esser partito in solitario.
Può essere un palliativo, un aiuto mentale, un incoraggiamento teorico, simulato, alla pari di un placebo per un malato messo male, ma serve ad infondere quel tanto di fiducia atto a proseguire, comunque e malgrado gli ostacoli.
In solitario? Il più delle volte la temerarietà aiuta, ma non sempre accade e, il ritrovarsi solo, non giova certamente a risolvere eventuali problemi che potrebbero comparire, sopraggiungere, dove sarebbe comodo avere qualcuno vicino a cui chiedere una mano, un aiuto. In certi frangenti l’essenza del ritrovarsi solo costituirà un’apertura al ripensamento sul modo di affrontare le situazioni: in solitaria oppure in compagnia.
Eziandio si potrebbe optare, una volta fatto il punto della situazione, di mettersi nelle mani di Dio. Uno scettico direbbe che sarebbe una decisione presa tra le nuvole, senza responsabilità alcuna. In caso di fallimento a chi si potrebbe, poi, dar la colpa, al Padreterno? Ma qui centra la fede appunto. Il fatto di possederla, integra, pura, è già una prova di forza, di aiuto.
Restando coi piedi nudi tra le ortiche, o farsi una passeggiata da fachiro sui carboni bollenti, prima di qualunque altro azzardo che si presenti in mente, sarebbe il rischio minore…
La testa dura di Matteo ne aveva accettata da lungi la sfida contro sé stesso, chiudendo ogni porta, ogni finestra fino all’ultimo spiraglio. Aveva negato ogni consiglio che, qualche persona accorta, sensata, gli avesse potuto dare. Un monito, sì da mettergli in dubbio, almeno una piccolissima, sparuta parte delle sue eccessive imprudenze: sconsideratezze per nulla pesate dalla sua ragione pressoché svigorita e messa in gabbia dal suo modo cinico di pessimo ascoltatore. La sua facoltà di ascoltare era divenuta asfittica, svigorita, così tenuta segregata dalla sua arroganza e dal suo modo di escludere persino i consigli, di sua moglie Rosina. Questa le stava a fianco, non certamente muta, ma inascoltata. Era come un birillo in posizione eretta con la bilia in acchito, pronta a subire il colpo di stecca per rovinarla addosso: l’attesa tragedia insomma di Rosina.
Marciava a pieno ritmo l’intraprendenza di Matteo al passo con una determinazione così florida e propositiva da fargli meritare un encomio. Un premio nel caso le sue opere fossero state spese invitando il suo cervello a sedersi al tavolo della razionalità, della coerenza: nulla di tutto ciò, proprio nulla. Ma in fin dei conti, fino allora, nulla era successo di eclatante, dove erano stati gli annunci, le parole sparate a suon di chiacchiere a non riempire il contenitore di imprese annunziate e mai effettuate. Le sue fandonie erano come se si volesse riempire d’acqua uno scolapasta in mare e portarselo fin sulla spiaggia, ancora pieno, sotto l’ombrellone. A lui, però, sembrava che riuscisse una simile operazione, almeno ci credeva a certe stupidaggini, solo che non ne aveva mai dimostrata alcuna.
Matteo si dava arie da intrepido per coprire le sue debolezze di uomo pauroso e inefficiente. Bastava guardarlo nel ridotto fisico, risicato appunto: lo era solo nel fisico e, a sentir lui, non lo sarebbe mai stato nelle azioni.
Era un tipo dalla faccia tosta, Matteo, tanto che nemmeno un provetto scalpellino, coi suoi attrezzi ne avrebbe potuto scalfirla e magari, ridurla a “figura” accettabile, cangiandone quel suo aspetto da impertinente.
Un giorno di luglio, armato di tutto punto, tanto da sembrare uno che partiva al fronte a combattere una guerra non sua, era uscito di casa di buon mattino e non aveva fatto ritorno. Due giorni dopo lo trovarono ai piedi di un roccione con le gambe fratturate e impossibilitato a muoversi. Aveva provato a fare la prima scalata della sua vita, senza riuscirci. Le sue prodezze blaterate, nel momento in cui ne aveva avuto bisogno, gli avevano girato le spalle.
Momentaneamente ci aveva rimesso le gambe, ma che col tempo gli ritornarono efficienti, dopo vari interventi e degenze in ospedali vari. Era rimasto claudicante però, come la sua fede. Certo nessuno lo informò che gli sarebbe divenuto fatale quel suo azzardo, senza l’aiuto che gli era venuto, diciamo dalla Fortuna, lasciando come controfigura di essa, l’Angelo custode: sempre attento, propizio, misericordioso.
09/08/2024
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