Ci servirà di lezione? Forse, speriamo

“Funiculì funicolà” fu scritta nel 1880 da Giuseppe Turco (testo) e Luigi Denza (musica) per celebrare l’inaugurazione della funicolare vesuviana, aperta l’anno precedente. Il brano ebbe subito uno strabiliante successo, vendette milioni di copie (un’enormità per l’epoca) e ha sollecitato le ugole più celebri della lirica mondiale: da Beniamino Gigli a Pavarotti. Nel tempo, la correlazione con l’origine della canzoncina si è persa e l’intraducibile iterazione “funiculì, funiculà” è diventata un brand ambassador dello spirito italico allegro e scanzonato ma anche indomito e geniale che, di riffa o di raffa, ci tira fuori dalle situazioni peggiori. L’altra faccia della imponente emigrazione di italiani in Italia (dal sud al nord) e nel mondo dalla Germania alla Francia, al Belgio, al Canada, agli Stati Uniti. La sigla di una narrazione indulgente, assolutoria, un po’ grottesca che ha conquistato la ribalta al prezzo non modico di imporre uno stereotipo deteriore, come la “comicità” da avanspettacolo (con tutto il rispetto) dell’“attore” che per decenni ha suggerito alla nazione l’immagine del pugliese di Beri, rozzo, illetterato ma furbo, scafato e “puttaniere” (quanto ci piacciono i “puttanieri” !!!): un incalcolabile danno di immagine per il Sud, altro che premi e riconoscimenti.

Ma “funiculì, funiculà” non è più solo una storia italiana. Oggi “Funiculì, funiculà” può essere considerata un’esortazione globale alla leggerezza, alla positività, alla resilienza, alla serendipicità. Un’espressione più colorita e allusiva del medesimo mainstream che sprigiona il testo “postumo” della splendida colonna sonora di Tempi moderni, scritta da Charlie Chaplin nel 1936: “Hide every trace of sadness”. Come se qualunque increspatura non sorridente del volto umano fosse da considerare qualcosa di negativo, da nascondere, celare appunto sotto uno smagliante sorriso.

Mi fermo, lungi da me la tentazione di inseguire le trame che potrebbero collegare queste premesse con le più eclatanti manifestazioni di narcisismo, superficialità e incompetenza cui abbiamo assistito da quando la pandemia ha avuto inizio. Un indice che potrebbe essere lunghissimo. Troppi smile fuori luogo e fuori tempo: oggi piangiamo morti e ricoveri, lo spettro dilagante della disoccupazione e la minaccia incombente di una devastante crisi economica o del caos sociale, anche (sottolineo anche) perché troppe volte non abbiamo saputo rinunciare ad un aperitivo, ad un caffè con la “comitiva”, ad una serata in discoteca, ad una festa, ad una celebrazione, ad una vacanza spensierata. Troppi “funiculì funiculà”. E poi. Una sarabanda di incompetenti, mezze calzette, eretti dalla peggio politica (o dai peggio elettori) in ruoli di enorme responsabilità solo per le qualità che non avevano: professionalità, rigore, autonomia e indipendenza perché chi muove da queste premesse magari (tra l’altro) si mette di traverso quando gli proponi di promuovere un inetto che devi comunque gratificare per i voti che, direttamente o meno, ti ha procurato. Basta. Il discorso è lungo e complesso ma è tempo di trovare il coraggio di cambiare radicalmente i criteri di selezione della nostra classe dirigente. Certo, da quando ripetiamo questa “solfa”? Da sempre, con risultati prossimi allo zero, considerate poche, talvolta fortuite, eccezioni.

Oggi, però, un’evidenza pesa come un macigno a favore di un cambiamento radicale. È troppo evidente, appunto, che la superficialità (smile, sempre e comunque) e l’incompetenza (“funiculì funiculà”) uccidono, sono mortali. Meglio ribadire. Se in Italia (e non solo, pensiamo al “limpido” esempio della ex presidenza visceralmente negazionista degli Stati uniti) avessimo avuto meno irresponsabili gaudenti, meno incivili, meno incapaci in ruoli chiave oggi conteremmo molti meno morti, ricoveri, contagi e danni per l’economia. Ci servirà di lezione? Forse, speriamo.