
Nel giro di due giorni, le onde del mare hanno inghiottito oltre 100 corpi al largo delle coste libiche
In questo momento voglio allontanarmi per un attimo dalla pandemia, da numeri e percentuali che occupano le nostre giornate ormai da quasi un anno.
Basta scorrere i giornali e vedere che questo maledetto virus e le dannate goccioline di saliva non devono essere le nostre sole preoccupazioni: c’è ben altro.
Nel giro di due giorni, le onde del mare hanno inghiottito oltre 100 corpi al largo delle coste libiche. Le vittime si riferiscono a quattro distinti naufragi:
il primo è di un gommone, rovesciatosi al largo di Khoms il 12 novembre, che ha provocato la morte di 74 persone. Una nave della ONG Open Arms, l’unica che pattugliava le coste di quel settore, ha recuperato 47 superstiti e 31 cadaveri. Sta proseguendo in queste ore la ricerca di altri corpi;
il secondo è riferito da Medici Senza Frontiere sul loro profilo Twitter: al largo di Sorman, vicino Tripoli, l’affondamento di un secondo gommone ha ucciso 20 persone. Tre sono le donne sopravvissute, che al momento sono sotto shock, salvate da alcuni pescatori;
a questi morti se ne aggiungono altri 19, tra cui due bambini annegati nell’affondamento di altre due imbarcazioni, secondo quanto riferisce l’International Organization for Migration (IOM).
È proprio da questo organo che è partito l’allarme per la terribile situazione nel Mediterraneo: il capo della missione IOM in Libia, Federico Soda, accusa l’incapacità degli Stati ad assumere azioni decisive nell’incremento delle operazioni di ricerca e salvataggio nella rotta marina più mortale del mondo, in cui dall’inizio dell’anno sono morti 900 migranti.
L’accusa non risulta priva di fondamento, in quanto le zone in cui sono avvenuti i naufragi fanno parte della cosiddetta “zona SAR” libica: in poche parole, si tratta di una zona marittima che si spinge per centinaia di miglia oltre la costa, in cui le autorità libiche sono “obbligate” a prestare i soccorsi (o quantomeno a far sì che questi arrivino in tempo) in presenza di imbarcazioni alla deriva.
Nonostante tale obbligo, disposto dalla “Convenzione Internazionale per la ricerca e il salvataggio marittimo” del 1979, le navi della fantomatica “guardia costiera libica” sembrano arrivare sempre in ritardo.
Soda accusa anche il ritorno forzato di 11.000 migranti, da inizio anno, in Libia, ormai uniformemente riconosciuto come “paese non sicuro” di sbarco per ovvie ragioni: il rientro delle imbarcazioni alle sue coste costituisce violazione del principio di non-refoulement, un principio internazionale inderogabile che vieta il respingimento di un rifugiato o richiedente asilo “verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche” ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951.
Oggi, tuttavia, risulta ancora in vigore un memorandum d’intesa tra Italia e Libia, stipulato nel 2017 tra il Ministro degli Esteri Gentiloni e il capo del governo libico riconosciuto dalla comunità internazionale Al-Serraj, che prevede la cooperazione tra i due paesi nel controllo delle frontiere marittime del paese africano e nel finanziamento dei “centri di accoglienza” operanti nelle città libiche, puntualizzando il rispetto del diritto internazionale e dei diritti umani (ma per ora si tratta solo di parole).
L’attuazione di questo memorandum risulta impossibile poiché, ad oggi, la Libia è priva di un governo che eserciti un reale controllo sul territorio.
La Missione Frontex (facente capo alla Commissione Europea) dal 2016 finanzia il progetto EUNAVFOR MED, che si occupa di addestrare marinai della “guardia costiera libica” nel pattugliamento delle frontiere marittime, allo scopo di impedire che imbarcazioni di trafficanti si dirigano in mare aperto. Tra i marinai addestrati figura anche Abd al Raman Al Milad, capo della “guardia costiera libica” di Zawiyah, condannato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per il reato di traffico di esseri umani, l’8 giugno 2018.
E si tratta, poi, della medesima guardia costiera che, il 6 novembre 2017, lasciò la zona di un naufragio di gommone, in cui si stima che 50 persone abbiano perso la vita.
Credo non ci sia altro da aggiungere.
Un ulteriore allarme è partito dall’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI), che ha aspramente criticato “l’arretramento delle politiche rivolte alla ricerca e salvataggio in mare e la costante criminalizzazione delle azioni delle ONG”: un problema partito dalle previsioni del Decreto Sicurezza-bis e dal Decreto Lamorgese, approvato il 21 ottobre 2020.
Il riferimento è alla limitazione dell’opera umanitaria delle ONG: l’art. 2 del Decreto Sicurezza-bis prevede una sanzione amministrativa che varia da 10.000 a 50.000 euro per ogni nave che transita in acque territoriali italiane senza autorizzazione; l’art. 1 del Decreto Lamorgese conferma tale sanzione, che può essere irrogata con atto ministeriale qualora la nave straniera sia impegnata nelle operazioni, tra le altre, di “carico e scarico di persone”: tale condotta, presumibilmente ricondotta alle ONG e assimilabile a quella del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, al momento non è supportata da alcuna prova.
Al di là di quest’ultima questione, è evidente che la mole della sanzione costituisce un fattore di rischio che le ONG non vorrebbero correre: e così si spiega la scarsa presenza di navi umanitarie, laddove i barconi alla deriva sono lasciati a loro stessi.
Alla luce di tutto questo, mi auguro che la politica si attivi per affrontare con serietà il problema migratorio, evitando che la situazione di emergenza sanitaria, che pur merita una doverosa attenzione, rischi di fare ombra sulla dignità di uomini, donne e bambini che ogni anno muoiono in mare.