Intervista a Raffaele Niro

Allegare file e premere invio. E’ cominciata così l’ avventura al Concorso TerraMia, una partecipazione senza pretese che, però, quasi per miracolo, ha visto il mio testo selezionato tra i finalisti di una chermesse di assoluto spessore culturale. L’esigua speranza che mi accompagnava era dovuta, in sostanza, al pensiero che a leggere i miei versi, dall’altra parte, c’era un maestro della poesia come Raffaele Niro. Perennemente assetato di cultura, il 43enne di San Severo ha reinventato lo stile del letterato. Le sue opere sono l’ipotenusa che unisce l’uomo ai principi più alti dell’universo concettuale, la via lattea che genera stelle di giustizia e onestà, scritti che educano alla costante ricerca dell’arte intesa come memoria regressiva di una primordiale appartenenza al tutto. Ciò che Raffaele Niro cerca di descrivere è il cordone ombellicare che ci lega alle nostre origini. Casa sua, la Daunia, non è altro che il compromesso tra commedia e liricità, la netta rappresentazione di una metafisica travestita da masnada di emozioni che, senza particolari sforzi, attecchiscono alla realtà.

Ciao Raffaele. Sei stato definito “il padre della videopoesia”, puoi spiegarci di che si tratta?

Non so chi mi abbia definito così, ma mi sembra eccessivo. Ho scritto un libro, l’ultimo, che si chiama “l’attesa del padre”, questo sì, mi occupo di videopoesia e in Italia siamo pochissimi a farlo, questo è anche vero, ma di sicuro non sono stato il primo a fare videopoesia in Italia.

Ho iniziato a fare videopoesia per via della mia passione per il cinema sperimentale e per la videoarte. Inizialmente provavo a “tradurre” un testo poetico in videopoesia, successivamente ho maturato la consapevolezza che una videopoesia è qualcosa di diverso e non deve essere funzionale solo alla parola scritta o detta. È un modo diverso di comunicare, un altro modo, un vero è proprio linguaggio. Ed il bello di questo nuovo linguaggio è che non ha ancora una decodificazione istituzionalizzata, è un terreno completamente libero sul quale puoi realizzare qualsiasi cosa, un villaggio o un bosco o una risaia. E sentirmi libero, per me, è fondamentale.

Le tue poesie sono apprezzate in Cile, Spagna, Nicaragua, Austria e Messico. Credi che, nella traduzione dei versi, si perda quella connotazione emotiva che un componimento dovrebbe suscitare?

Le traduzioni, tutte, sono una cosa diversa rispetto al testo originale. Lo stesso autore che traduce se stesso in un’altra lingua deve rinunciare a qualcosa del testo originale.

Con questo non voglio dire che le traduzioni siano dei surrogati rispetto all’originale, dico, semplicemente, che sono una cosa diversa.

Quando un testo viene tradotto in un’altra lingua è inevitabile che la traduzione acquisisca anche la “poetica” del traduttore, e, in alcuni casi, la traduzione può essere addirittura meglio del testo originale.

Di recente è stato pubblicato in Italia il “Finnegans Wake” di James Joyce, un’opera che è sperimentazione linguistica e, allo stesso tempo, il tentativo di superare i confini della forma romanzo, tradotta da J. Rodolfo Wilcock. Questo libro, pubblicato da Giometti & Antonello, è la riprova di quello che penso della traduzione. Nella traduzione, Wilcock, quasi rielabora l’opera di Joyce, facendola propria.

Da poeta a sceneggiatore teatrale, hai scritto “Ed ora ammazzateci tutti”, una pièce in omaggio a Peppino Impastato, e “I piedi al muro” con protagonista una donna sahrawi. In che misura l’arte letteraria può assolvere a ruolo di denuncia sociale?

L’arte, fine a se stessa, credo sia qualcosa che non ha futuro, circostanziata alla vita del suo autore.

L’arte deve essere sempre qualcosa di sociale, che deve appartenere alla società, alla comunità, d’altronde è la comunità, la società, che dà valore artistico a un’opera.

Un’opera, se non è percepita propria dalla società, non è tale.

Con la poesia provo a interpretare il mondo, a darne una visione. Da uomo occidentale, provo a dire che la nostra società non è una società, ma un insieme di individui, di egoismi, di individualismi e che, se vogliamo provare a salvarci, dovremmo tornare a pensare in termini di comunità.

Come proprio oggi scrive Maria Grazia Calandrone, “La poesia serve a ricordarci – quando è altissima, a dimostrarci – che siamo tutti la stessa persona”.

Con il teatro – che poi anche il mio teatro è sperimentale, molto più simile ad una performance di Bill Viola che ad uno spettacolo teatrale di Marco Paolini – provo, invece, a fare “memoria”, a ricordare personaggio o storie, provando sempre a sottolineare l’importanza di sentirsi parte di una comunità.

Ho avuto l’onore di essere selezionato tra i 12 vincitori di TerraMia, concorso letterario dedicato alla Daunia. Da dove nasce questo progetto e qual è stato il dono più grande ricevuto dalle radici della tua terra?

Il Concorso TerraMia non è altro che la sintesi di un percorso di collaborazione che da tempo sto portando avanti con la Fondazione TerraMia. Una storia che è iniziata con la conduzione di un gruppo di lettura che ho tenuto da loro per alcuni anni e della direzione artistica di un ciclo di mostre che abbiamo allestito presso la Fattoria del Villaggio, nata grazie al supporto della Fondazione TerraMia.

Il dono più grande ricevuto dalla mia terra, probabilmente, è il paesaggio. Probabilmente non per propri meriti, ma resta di fatto che il paesaggio dauno è un paesaggio che vede ancora la natura protagonista. Non è poco in una nazione dove l’industrializzazione ed il cemento hanno fatto disastri non più risanabili.

Progetti futuri?

Prima o poi mi piacerebbe lavorare ad un videogioco che abbia come protagonista la poesia.

Nel frattempo sto provando a scrivere poesie per bambini.