Sapremo accettare la provocazione che queste pagine ci lanciano?
“Sulla tomba di Zà finisce la loro infanzia. Il borgo assume i colori della nostalgia. La vita gli ha già portati da un’altra parte. Alceo e Michela non sanno se essere contenti”: si potrebbe prendere in prestito queste poche righe tratte dal racconto “Il cane straniero”, ultimo racconto della omonimo libro del dott. Del Giudice, per cogliere il leit-motiv che tiene insieme i racconti in esso contenuti. Racconti dal sapore antico, di tempi lontani, ma come tali indigesti. Sì, indigesti in quanto, a leggerli con l’occhio superficiale del lettore super-tecnologicizzato di oggi, questi racconti ti fanno davvero incazzare, soprattutto i primi, i quali sembrano costruiti apposta per suscitare la rabbia del lettore in quelle storie tristi ed apparentemente senza speranza.
E forse è questa la celata intenzione dell’autore: sì, perché piano piano essi si rivelano come un grido di rabbia di fronte alla apatia della gente contemporanea. Lo si vede nella voglia di lottare di Andrea e Giulia che pregano il loro Dio dei bambini, in Catia che va a trovare il papà immigrato a Torino per motivi di lavoro, nella forza d’animo di Maria costretta ad allevare suo figlio da sola malgrado l’ostilità e l’incomprensione di chi avrebbe dovuto volerle bene e che, al contrario, si chiude in un sordo dolore perché sono state violate le convenzioni sociali dell’epoca. Nel quadro della famiglia perfetta di Milva che si scioglie inducendola a scappare quanto prima per la Russia con il suo maestro di pianoforte. Nell’uomo del terrazzo, Sergio, il quale accartoccia e butta la lettera di licenziamento inviatagli dalla azienda in quanto ha molte altre cose più importanti cui pensare: accudire i suoi figli dopo la morte della moglie. Nella violenza domestica denunciata da “una bambina perfida”, la suora dell’asilo. Nella necessità di Nino di andare a piedi scalzi.
Storie, dunque, in una continua, sotterranea altalena fra noi e loro. Ma con una differenza rispetto a questi nostri lontani parenti: può darsi che, come ha capito Andrea ne “Il Dio dei bambini”, “anche i sogni si comprano, il destino porta altro…”. E pur tuttavia la domanda è: anche noi, saremo ancora capaci come Angelino, con “Il Nonno cieco”, nel suo mondo buio, di trovare una ragione di vita per cui “la malasorte non è più un nemico invincibile?” Oppure, nella nostra confortevole indifferenza, per parafrasare il racconto de “Il cane straniero”, lasceremo che dopo il tramonto si alzi il muro invisibile che ci separa poiché manca lo scambio umano tanto denunciato in questi racconti?
La risposta è data dal saper ascoltare queste pagine del passato che sono scomode perché ci rimandano ad un tempo ricco di difficoltà cui i nostri avi non si sono piegati. Sapremo accettare la provocazione, la sfida che esse ci sollecitano?