Frasi senza cervello, senza storia, senza lavoro alle spalle, possono distruggere secoli di lavoro degli italiani migliori

Il caporalato è qualcosa di antico forse quanto l’Italia postunitaria. E ciclicamente i fatti di cronaca estivi come quelli del Foggiano di sabato e lunedì che hanno provocato 16 vittime con la stessa dinamica: uno scontro del furgone dove erano ammassati i lavoratori, di ritorno da una giornata di raccolta sui campi di pomodori, riportano in auge il tema. Sfruttamento di braccia e di persone per pochi euro a quaranta gradi sotto il sole da parte di imprenditori senza scrupoli.  Sono storie di lavoratori, non di invasori o clandestini, a cui bisogna riconoscere dei diritti elementari.

Ma dopo decenni di lotte per la riforma agraria, botte, morti, massacri, prigioni; dopo i Fasci siciliani (niente a che fare col Fascismo, tranquilli), le marce, convegni e la vita intera di uomini come Di Vittorio; dopo la legge sul caporalato guadagnata con fatica solo nel 2016, i libri e i documentari (cito a memoria Uomini e caporali di A. Leogrande, Mafia caporale di L. Palmisano, La giornata di P. Mezzapesa su Paola Clemente) incontri persone nei bar che ti dicono: “come mai ve ne accorgete solo adesso? parlate del caporalato solo perché si chiamano Abdullah? e gli italiani, eh…?”.

Ecco come frasi senza cervello, senza storia, senza lavoro alle spalle, possono distruggere secoli di lavoro degli italiani migliori.

Giovanni Capurso