“Un grande libro come la Divina Commedia non è l’isolato o casuale capriccio di un individuo; molti uomini e molte generazioni tesero ad esso. Investigarne i precursori non significa incorrere in un miserabile compito di carattere giuridico o poliziesco; significa indagare i movimenti, i tentativi, le avventure, i barlumi e le premonizioni dello spirito umano.”

(J. L. Borges, Saggi danteschi)

Questo scritto nasce da un’intuizione alla quale, evidentemente, ha contribuito l’ambivalenza dei

miei studi musicali ed umanistici. È ben lungi da volersi proporre come il risultato di una vera e propria ricerca, piuttosto è da intendersi come una “avvalorata suggestione” che potrebbe motivare un ulteriore filone di studi. È da accogliere sulla falsariga dei Saggi Danteschi di Borges, speculazioni cioè dello scrittore che studia e non dello studioso che scrive.

L’ipotesi che qui si suggerisce è che alle origini della Divina Commedia di Dante Alighieri potrebbe esserci un modello musicale, e non soltanto in senso generico bensì una precisa opera: Las Cantigas de Santa Maria del Re Alfonso X, detto El Sabio.

Questo scritto si divide in tre parti. Nella prima si contestualizzerà storicamente l’ipotesi. Nella seconda si analizzeranno tre esempi di “sogno mistico” -probabilmente conosciuti da Dante- che saranno utili per focalizzare la pluralità culturale del poeta. Nella terza parte si raggiungerà l’ambito più strettamente musicale.

L’uso di modelli anche musicali per l’ideazione e la scrittura di un’opera letteraria sarebbero un percorso tutt’altro che anomalo, contestualizzandolo all’epoca del poeta, in cui non esisteva una divisione netta tra Poesia e Musica.

Sappiamo che Dante aveva ricevuto un’istruzione che comprendeva, oltre il Trivio Umanistico, anche il Quadrivio Scientifico: aritmetica, geometria, astronomia e musica. È pertanto da intendersi che Dante fosse in grado di apprezzare la musica anche da un punto di vista “scientifico”, conoscendone lo specifico e la teoria.

Impossibile, tra l’altro, per chi si fosse all’epoca cimentato con la poesia, non conoscere almeno

le basi della metrica e della ritmica.[1]

La musica potrebbe essere inserita nel “plurilinguismo” dantesco. Così il Marchese: “Il plurilinguismo di Dante è compresenza di strati lessicali-tonali e incessante sperimentalismo”[2].

Alfonso el Sabio (1221-1284) successe al padre nel 1252 come Re di Castilla e León.

Della biografia di Alfonso ci sono due elementi funzionali all’argomento. Il primo è il momento storico in cui lo si vede in disputa con Riccardo di Cornovaglia. Il secondo è ciò che gli ha conferito l’appellativo di El Sabio.

Nonostante la già avvenuta consacrazione al Trono di Germania di Riccardo di Cornovaglia, nel 1257 Alfonso viene eletto Rex-electus Romanorum.

Durante la disputa tra i due imperatori, Firenze pensa di inviare due ambasciatori: Guillermo Beroardi a Worms al cospetto di Riccardo di Cornovaglia e, in Spagna dal rivale Alfonso X, Brunetto Latini.

La studiosa Giulia Bolton Holloway afferma che: “Così sperava Firenze di ottenere l’appoggio di uno o di ambedue i candidati imperiali contro la gibellina Siena e contro Manfredi di Sicilia”[3].

Ecco come lo racconta lo storico Giovanni Villani nelle Cronache di Firenze:

“Come furono eletti il re di Romani il re di Castello e Ricciardo Conte di Cornovaglia.

Nel detto anno, essendo d’assai tempo prima per gli elettori dello ‘mperio eletti per discordia due imperadori, l’una parte (ciò furono re de ‘ lettori) elessono il re Alfonso di Spagna, e l’altra parte degli elettori elessono Ricciardo conte di Cornovaglia e fratello del re d’Inghilterra; e perché il reame di Boemia era in discordia, e due se ne facevano re, ciascuno diede la sua boce a la sua parte. E per molti anni era stata la discordia de’ due eletti, ma la chiesa di Roma più favoreggiava Alfonso di Spagna, acciò ch’egli colle sue forze venisse ad abbattere la superbia e signoria di Manfredi; per la qual ragione i Guelfi di Firenze gli mandarono ambasciadori per somuoverlo del passare, promettendogli grande aiuto acciò che favorasse parte guelfa. E l’ambasciadore fue ser Brunetto Latini, uomo di grande senno e autoritade; ma innanzi che fosse fornita l’ambasciata, i fiorentini furono sconfitti a Monte Aperti, e lo re Manfredi prese grande vigore e stato in tutta Italia, e ‘l podere dalla parte della chiesa n’abbassò assai, per la qual cosa Alfonso di Spagna lasciò la ‘mpresa dello ‘mperio e Ricciardo d’Inghilterra no lla seguìo”[4].

E questo spiega la presenza di Brunetto Latini alla corte di Alfonso El Sabio e del suo riparare nel 1260 in Francia, in esilio. Farà ritorno in patria circa sette anni dopo.

Tuttavia la presenza di Brunetto Latini alla corte spagnola di Alfonso X fu d’importanza non solo politica ma culturale.

Toledo e Siviglia, dal 1085, conquiste del re cristiano Alfonso VI, si erano convertite in centri di pluralità culturale e religiosa. Gli antichi testi greci tradotti in arabo, vennero a loro volta resi in latino e poi in lingua romanza ed è solo grazie alla mediazione islamica che ci sono pervenuti alcuni di questi tesori della Classicità.

La corte di Alfonso X ricalcava il modello della corte siciliana di Federico II di Svevia, nella quale si riunivano eccellenze nel campo delle arti e delle scienze, indifferentemente se fossero cristiani, giudei o islamici. Lo stesso Alfonso, e qui il soprannome di “El Sabio”, era uomo di lettere, arte e scienza ma soprattutto profondo conoscitore d’astronomia.

Alfonso fa tradurre in castigliano – correggendoli egli stesso – testi che diventeranno fondamentali in Europa in ambito letterario, giuridico, filosofico e scientifico.

È alla corte di Alfonso che Brunetto Latini viene in contatto con le fonti greco-arabe di alcune opere di Aristotele e Tolomeo. Egli stesso a sua volta le tradurrà e, secondo la studiosa Julia Bolton Holloway, sarà lui a sottoporle a Dante che le userà per strutturare la Commedia.[5]

Dopo la cacciata dei Guelfi da Firenze, in seguito alla sconfitta di Montaperti, Brunetto finisce in esilio in Francia e qui scrive Il Tesoretto, un poema didascalico scritto in prima persona nel quale egli racconta il suo ritorno in patria e di come, dopo aver appreso della cacciata dei Guelfi, si “perda in una selva diversa”. A questo punto lo scritto assume un carattere onirico, allegorico e simbolico. La “selva dantesca” rimanda a quella del Tesoretto? Quanto e in che termini la tradizione del viaggio mistico-onirico influì sulla Commedia?

E veniamo ai tre sogni.

Si è spesso parlato della Commedia come un rifacimento della Catabasi nell’Odissea di Omero e poi nell’Eneide di Virgilio. Credo che questi siano modelli culturali fondamentali per Dante ma troppo lontani nel sentimento religioso di chi come lui, volente o nolente, era non solo poeta ma anche teologo.

A creare altra distanza dalla Commedia è la “letterarietà” di Ulisse come di Enea, il loro appartenere all’epica.

Borges nei Saggi danteschi scrive: “L’azione di Ulisse è indubbiamente il viaggio di Ulisse, perché l’Ulisse non è altri che il soggetto di cui si dichiara quell’azione; ma l’azione o l’impresa di Dante non è il viaggio di Dante, ma l’esecuzione del suo libro”[6].

La catabasi appartiene all’Ade pagano; perché Dante non avrebbe dovuto, o voluto, assumere esempi nell’ambito del monoteismo e dell’agiografia cristiana?

L’escamotage che permette la conoscenza dell’oltretomba da parte di un essere in carne ed ossa è, nella cristianità, il sogno. Il sogno inteso come il momento in cui lo spirito si separa dal corpo, lasciandone tuttavia impressi i segni dell’esperienza mistica; le stigmate ne sono un esempio.

Borges rintraccia il primo modello cristiano di visita all’oltretomba in San Fursa, un asceta irlandese che, durante una malattia, è rapito dagli angeli e portato in cielo dove incontrerà il fuoco infernale e poi le sfere serafiche. Lo racconta Beda il Venerabile, Santo e dottore della chiesa, storico e monaco anglosassone che appare come il settimo dei dodici spiriti dell’ardente corona nel Canto X (130-132) del Paradiso dantesco.

La novità del racconto di Fursa, rispetto ai modelli pagani, sta nel fatto che egli non va in cerca di questa avventura ultraterrena; neppure di propria volontà varca la soglia dell’oltretomba, come avevano invece fatto Ulisse ed Enea. Fursa ne è suo malgrado coinvolto, in conseguenza di una malattia, elemento che ritornerà ne Las Cantigas.[7]

La disputa tra diavoli e angeli è evidentemente ciò che nell’Ade pagano non potrebbe avvenire, essendo un luogo neutro, fatto di ombre indistinte in cui la bontà o la malvagità terrena è obliterata.

Un altro elemento di distinzione è l’assenza, nell’Ade omerico, di una guida.

Fursa, invece, riceve nell’oltretomba la protezione e la guida di due vescovi beati; Beoanus e Meldanus che, in Dante, potrebbero essersi sublimati in Virgilio e Beatrice; anch’essi personaggi realmente esistiti e non figure epiche.

Poco dopo la morte di Fursa, fu redatta in latino la Vita Fursei da un monaco che affermava di aver conosciuto il santo. La Vita Fursei conteneva la Visio Fursei che raccontava, appunto, dell’esperienza di San Fursa nell’aldilà. Sappiamo che questo libercolo circolò separatamente dalla Vita Fursei ed ebbe una grande diffusione all’epoca di Dante. Quindi Dante avrebbe potuto apprendere della storia di Fursa da due fonti: l’opuscolo Visio Fursei proveniente dalla Francia, oppure dalla Historia ecclesiastica di Beda che circolò anche nel continente.[8]

Conosceva Dante la storia di Fursa, monaco irlandese? Nonostante Beda appaia nel Paradiso dantesco, secondo Borges è improbabile.

Dante difficilmente sarebbe venuto in contatto –sempre secondo Borges- con la Historia Ecclesiastica di Beda, in cui era inserita appunto la salita al cielo di Fursa.  Tuttavia, vista l’inclusione di Beda tra i dodici spiriti nel decimo Cantodel Paradiso, potremmo avanzare obiezioni all’opinione di Borges che appare più come una “coquetterie letteraria”; una benevola disputa tra la terra romanza e –come lui stesso la chiama- la “ancor vaga Inghilterra”.

Contro l’opinione di Borges abbiamo quanto segue: Fursa trascorse gli ultimi anni della sua vita lontano dalla “vaga Inghilterra” e più precisamente nella Francia settentrionale, dove morì nel 649 e dove fu eretta una cappella che divenne meta di celebri pellegrinaggi.

Ci sembra logico pensare che Dante dovesse sicuramente conoscere le opere in possesso del suo maestro Brunetto Latini.

A quanto sappiamo, Brunetto portò dalla Spagna una traduzione dall’arabo, un secondo sogno: La escala de mahoma tradotto da Bonaventura da Siena.

Bonaventura da Siena era un notaio, segretario reale e traduttore. Negli anni ’60 del XIII secolo lo troviamo, nella funzione di traduttore, a Siviglia alla corte di Alfonso X che gli ordina la trasposizione dal castigliano al francese de: Livre de l’éschiele Mahomet che, a sua volta, tradurrà in latino.[9]

Esistono due manoscritti della prima metà del Duecento: Il Livre de l’Eschiele Mahomet conservato nella Bodleian Library di Oxford, e Il Liber Scalae Machometi nella Bibliothèque Nationale de France di Parigi. Della versione latina esistono due manoscritti, uno nella Biblioteca nazionale di Parigi ed un secondo in quella vaticana. La prima versione in castigliano è andata perduta.

Siamo autorizzati a pensare che Brunetto Latini, che si trovava alla corte del Re Alfonso negli stessi anni di Bonaventura, portò con sé copia del libro che narrava dell’ascensione di Maometto e, attraverso di lui, il testo giunse a Dante.

Sappiamo che Latini, nel 1260, al ritorno dalla Spagna, dovette recarsi in Francia in esilio dove vi rimase circa sette anni. È negli anni ’80 quindi che ritorna a Firenze ed incontra Dante e, probabilmente, gli sottopone ciò che aveva portato dalla corte di Alfonso El Sabio.

L’arabista Miguel Asín Palacios è convinto che il libro tradotto dal Bonaventura fu utilizzato da Dante come fonte d’ispirazione alla Commedia.[10]

Prima di approfondire la teoria di Palacios, è inevitabile la replica che solleva lo studioso Paolo Sacchi; Dante avrebbe potuto accedere alle fonti giudaico-cristiane senza necessariamente passare per l’Islam. Lo stesso Palacios ammette che nemmeno la “Mirage” di Maometto può dirsi assolutamente originale ed autoctona del popolo islamico, in quanto posteriore ai testi apocrifi cristiano-giudaici; esempi ne sono le esperienze ultraterrene dell’Enoch antidiluviano, Isaia e Mosè. Questi testi erano reperibili per Dante? E, ammesso che lo fossero stati, come sarebbe venuto Dante a conoscenza della loro esistenza?

Questa domanda mi sembra sostanziale perché ai tempi di Dante non esistevano molti metodi di divulgazione di un testo, comunque e sempre in limitatissime copie manoscritte.  L’esistenza di un testo veniva segnalata essenzialmente da chi ne aveva avuto visione o ne era in possesso e, all’epoca, parliamo di una cerchia limitatissima di individui. Ancora una volta, la fonte più diretta sicuramente va ricercata nel maestro di Dante: Brunetto Latini.

Palacios suppone che Dante non avesse una grande cultura: che conoscesse poco Aristotele, che non conoscesse per nulla San Tommaso, che avesse conoscimenti scientifici molto superficiali e, addirittura, che ignorasse del mito di Ulisse il ritorno a Itaca, la perdita dei compagni e le modalità della sua morte. Il racconto della morte di Ulisse nel Canto XXVI non sarebbe quindi una scelta volutamente originale ma frutto dell’ignoranza del poeta. In quest’ultimo caso, Palacios trova la poca erudizione di Dante un vantaggio all’eccellente qualità inventiva e narrativa della Commedia. Sarebbe stata, infatti, la poca erudizione di Dante a mettere le ali alla sua fantasia che, nell’Ulisse della Commedia, ha uno dei suoi momenti più alti.[11]

La studiosa Maria Corti ritiene che proprio la faccenda di Ulisse derivi da canali arabo-castigliani e il Cerulli rileva che la visione di Maometto è presente nella Cronica General di Alfonso El Sabio.

Palacios compie una critica comparata nell’ambito morfologico e topografico tra La scala di Maometto e la Divina Commedia.

Secondo lo studioso, esempi di viaggi nel regno dei morti fino al secolo XI sono frammenti troppo confusi e generici per poter essere stati un modello alla precisione strutturale di Dante. In seguito al secolo XI, appaiono in ambito cristiano: la Visione di Alberico, il Viaggio di S. Brandano, la Visione di S. Paolo, il Purgatorio di S. Patrizio, la Visione di Tundalo. Palacios analizza questi esempi sulla base dell’ipotesi della contaminazione islamica. Le influenze islamiche su quelle cristiane non possono definirsi casuali e discendono dal contatto tra le due culture, avvenuto in Sicilia ed in Spagna, successivamente ai pellegrinaggi in Terra Santa e alle Crociate.

Un secondo elemento Palacios lo riscontra nelle circostanze del viaggio di Maometto. Il profeta sarà accompagnato nel suo viaggio ultraterreno dall’angelo Gabriele che, in Dante, rimanderebbe alla donna angelicata Beatrice. Le ultime parole dell’angelo Gabriele a Maometto sono pressoché le stesse che Beatrice dice a Dante, cioè di non dimenticare ciò che ha visto e di farne partecipi gli uomini affinché scampino l’inferno.

Altro elemento evidenziato dallo studioso spagnolo è che Maometto inizia il viaggio scalando un monte “alto e scosceso”, come in Dante “l’alta ripa” del Purgatorio.

L’elemento comune più “spettacolare” tra La Commedia e La scala di Maometto è l’architettura dell’Inferno. Dante si sarebbe basato sul modello musulmano, ricalcandone la struttura architettonica e fondendola con quella morale dell’inferno cristiano: un gigantesco imbuto formato da una serie di ripiani circolari.

Nella ricerca di Palacios, emergono fonti islamiche anche nel Paradiso terrestre (Canto XXVIII).[12]

E veniamo all’ascensione ai cieli. Nel “Mi‘rāj” le tappe dell’ascensione sono quante i cieli astronomici, così come nella Commedia; i sette cieli del sistema tolemaico, più quello delle stelle fisse, l’Empireo e il Cristallino. Nel “Mi‘rāj” hanno nomi diversi ma sono anch’essi dieci. Vige una relazione “morale” tra ogni sfera e una determinata virtù.[13]

La metafora tra Luce e Divinità. Abbaglianti luci ottenebrano la vista di Maometto ad ogni nuova tappa ascensionale, più si avvicina a Dio e più egli è abbagliato dalla sua luce, tanto che crede di diventare cieco. Grazie all’intercessione di Gabriele presso Dio, viene concessa ulteriore forza alla vista del Profeta, in modo da poter sostenere la contemplazione di Dio.

Impressionante la similitudine nel Paradiso XXX, v. 49-51 quando Dante scrive: “Così mi circonfulse luce viva, e lasciommi fasciato di tal velo del suo fulgor, che nulla m’appariva”. Beatrice lo tranquillizza e presto egli acquista la capacità di sostenere lo splendore divino.

Altra forte analogia, si riscontra davanti alla contemplazione diretta di Dio, quando Maometto dice: “Vidi una cosa tanto grande che la lingua non può spiegarla, nè l’immaginazione concepirla”.

L’analisi di Palacios, qui sintetizzata, è accuratissima e la conclusione è che, per via diretta o indiretta, Dante dovesse conoscere le narrazioni dell’Isrā‘ e del Mi‘rāj, e i testi di carattere escatologico degli islamici: Abū al-ʿAlāʾal-Maʿarrī e Ibn ʿArabī.

La teoria di Palacios sollevò naturalmente un polverone. Il dantista Bruno Nardi sostenne, contro la maggior parte degli esperti italiani, che Dante non seguisse nessun maestro in particolare, ma accogliesse le teorie di tutti i pensatori per fonderle, in modo eclettico, in un sistema personale. L’eclettismo di cui parla il Nardi, considerando anche le prerogative della poesia tra due e trecento, potrebbe estendersi all’ambito musicale e, a sua volta, scavalcare i confini nazionali.

Se i testi dei due sogni, fin qui visti, possono aver influenzato o ispirato Dante a livello di contenuti è sicuramente il terzo sogno, quello musicale de Las Cantigas de Santa Maria, che offre ulteriori punti di contatto con la Commedia.[14]

Alfonso X, che aveva dichiarato il Castigliano lingua ufficiale, scrisse Las Cantigas in Gallego. Una delle ipotesi per la scelta del Gallego, si ricollega -ancora una volta- alle influenze arabe. Pare, infatti, che il Gallego si prestasse meglio del Castigliano a riprodurre la metrica e la forma strofica dello Zagial usato dagli arabi dell’Andalusia. All’influenza araba si aggiunge la tradizione popolare galiziana e provenzale.

Le fonti sembrano essere le raccolte latine di Gualtiero di Cluny e di Vincenzo di Beauvais.[15]

Il musicologo catalano Anglés confuta le origini arabe, ipotizzando una tradizione melodica di origine religioso-liturgico preesistente alle Cantigas.

Nell’indagine circa le opere medioevali, è importante tener presente che ci si muove in un ambito culturale che non conosce le distinzioni di genere come le intendiamo oggi e che, invece, usava amalgamare e fondere forme e pratiche differenti. Così poesia, musica, teatro e danza spesso erano indubbiamente legati nella concezione, esecuzione e fruizione dell’opera artistica. Non dovrebbe quindi scandalizzare il supporre che La Divina Commedia possa essere stata concepita come un’architettura musicale.

Il primo, evidentissimo, punto di convergenza; il vero motore trainante di ambedue le opere è la Vergine Maria.

La Vergine Maria nella Commedia, come nelle Cantigas, non è solo una figura devozionale bensì è l’impianto stesso di tutta l’opera che ne giustifica addirittura la genesi!

Dante ce lo dice nel Canto II dell’Inferno quando il Poeta nutre dubbi su “l’altro viaggio” paragonandolo alla stoltezza del viaggio di Ulisse. È Virgilio a rassicurarlo, raccontandogli di come Beatrice fosse andata a trovarlo nel Limbo, mandata da Lucia, a sua volta su richiesta di Maria.

Lucia è presente già nell’Inferno, interverrà nel Purgatorio ed apparirà nel Paradiso.

Nell’Inferno:

“Beatrice, loda di Dio vera, / ché non soccorri quei che t’amò tanto, / ch’uscì per te de la volgare schiera? / Non odi tu la pieta del suo pianto, / non vedi tu la morte che’l combatte / su la fiumana ove ‘l mar non ha vanto? / Al mondo non fur mai persone ratte / a far lor pro o a fuggir lor danno, / com’io, dopo cotai parole fatte / venni qua già del mio beato scanno, / fidandomi del tuo parlare onesto, / ch’onora te e quei ch’udito l’hanno” (Inferno, II, vv. 97 ss.)

Nel Purgatorio:

“L’son Lucia / lasciatemi pigliar costui che dorme, sì l’agevolerò per la sua via”. (Purgatorio, IX, 52 ss.) 

Nel Paradiso:

”Siede Lucia, che mosse la tua donna / quando chinavi, a rovinar, la ciglia” (Paradiso, XXXII, vv. 136-138).

Potremmo addirittura rinvenire nella Commedia una “trinità femminile” in quel di Maria, Lucia e Beatrice.

Lucia è la protettrice della vista e questa simbologia inerente alla luce, come dirò in seguito, non può essere ignorata.

Nel Paradiso dantesco troviamo due delle simbologie più caratteristiche delle Cantigas: l’immagine mariana della “Rosa delle rose” e della “Stella Maris”.

In Dante sono presenti ambedue i simboli uniti: (Canto XXIII. 88-90 92-93):

“Il nome del bel fior ch’io sempre invoco/ e mane e sera, tutto mi ristrinse/l’animo; Maria è detta qui la viva stella/ che là sù vince come qua giù vinse”

Las Cantigas sono 427. Il codice presente a Firenze ne contiene 104, due delle quali non appaiono in altri codici.

La maggior parte racconta di miracoli compiuti dalla Vergine secondo la tradizione popolare, ma circa dieci sono quelle sicuramente composte dal Re Alfonso ed alcune di queste raccontano dei miracoli di cui lui stesso è stato protagonista. Alfonso El Sabio, durante una malattia incurabile, sogna la Vergine (e qui andiamo a ricollegarci con quanto già esposto circa la necessità della dimensione onirica affinché sussista l’esperienza trascendentale). In sogno la Madonna lo sfiora guarendolo, in cambio egli dovrà comporre in suo onore Las Cantigas e raccontare al mondo i prodigi di cui ha avuto esperienza (Cantiga 235). Alfonso si mette al lavoro.

Tempo dopo, nuovamente malato a morte, chiede che gli vengano messi nel letto i componimenti dedicati alla Vergine; O livro dela aduse, affinché il loro beneficio sulla sua persona sia più diretto, ed in effetti di lì a poco guarisce (Cantiga 209).

Se le malattie di Alfonso siano state di origine fisica oppure spirituale; o forse solo metafore, similmente allo “smarrimento” dantesco, non c’è dato saperlo.

Nella Cantigas coesiste alla novità inventiva un “Continuum memoriale”, evidentemente non a casaccio ma con la volontà di evocare nel “So” altre sonorità che rimandano ad altri significati ed amplificano il senso delle parole.

Si notino le similitudini nell’ambito della costruzione narrativa. Ogni Cantiga appare essere più della mera descrizione di un miracolo; potremmo definirla per forza narrativa una vera sceneggiatura in miniatura. Dante pare fare lo stesso in ogni Canto. I Canti danteschi appaiono drammaturgicamente più autonomi e in sé compiuti di quanto non sarebbero le scene di un atto teatrale o i capitoli di un romanzo. Ogni canto ha i suoi protagonisti, ricchi di sfumature psicologiche, situazioni con forti chiaro-scuro, che hanno come unico ambiente quel preciso Canto e non un altro. La costruzione drammaturgica secondo i canoni aristotelici è, in ogni singolo Canto, compiuta; ha un inizio, uno sviluppo, un climax ed una risoluzione. Naturalmente tutti i Canti sono legati tra loro come anelli di una catena ma, ad una lettura individuale, ogni canto risulta compiuto ed autonomo, secondo il modello della Cantigas.

Un’altra similitudine molto evidente è l’introduzione in un contesto fantastico di elementi realistici. Come nel sogno, persone della realtà si muovono e operano in situazioni fantastiche ed interagiscono con personaggi immaginari o simbolici. Las Cantigas di Alfonso vogliono aggiungere, al repertorio della tradizione mariana, eventi e personaggi legati al proprio contemporaneo storico e personale. Stessa cosa farà Dante inserendo nel suo oltretomba, oltre alle celebrità del mondo classico, un pullulare di personalità fiorentine, una sorta di “Gazzetta fiorentina”. I personaggi che Dante incontra nel suo viaggio riguardano anche il suo reale privato; persone cioè che egli conobbe nella vita reale.

I contenuti di alcune Cantigas non sono lodi alla Vergine per i suoi prodigi ma racconti di peccati e punizioni. Vi sono coinvolti tutti gli strati sociali e culturali; uomini di chiesa e reali, contadini e mendicanti; cavalieri, eretici, musulmani ed ebrei. Porre i peccatori tutti sullo stesso piano era un’audacia tutt’altro che scontata all’epoca, e che ritroviamo -evidentemente- anche nella Commedia.

Dalla dimensione pubblica passiamo a quella privata. La dimensione emozionale è usata come vettore di trasmissione e funzione mnemonica; tanto più forte sarà l’emozione, tanto più a lungo rimarranno impressi alcuni versi ed il loro contenuto. In Dante, come nella Cantigas, questo elemento pare sempre strategicamente preparato ed accuratamente preposto.

Vediamo adesso l’ambito più tecnico.

La concezione orale della composizione emerge in ambedue le opere grazie a regolarità e simmetria dei versi e dei gruppi strofici. Essa implica due elementi. Il primo è la memoria che è da considerarsi come metodo di creazione e come strumento di trasmissione.

Il secondo è la variazione come principio costitutivo.

Solo nella fase conclusiva della creazione dell’opera si può parlare di scrittura (partitura o testo) con la necessità di fissare e tramandare il componimento.

La Commedia di Dante pare in tutto e per tutto adatta ad essere “Poesia per musica”, un’opera cioè che per regolarità e simmetria del verso e dei gruppi strofici avrebbe potuto essere accompagnata melodicamente, esattamente come Las Cantigas. Possiamo supporre, nel caso della Divina Commedia, dei segmenti melodici quasi identici che accompagnassero l’articolazione sintattica del discorso verbale.

Nella Cantigas la forma melodica si fonde a quella testuale sul piano metrico-ritmico e non su quello semantico-espressivo. Applicando lo stesso principio alla Divina Commedia, sarebbe possibile -dall’unità metrica e fonetica dei versi- dedurre una melodia, con un margine minimo di variazione.

Nelle Cantigas, come nella Divina Commedia, riscontramo il “Mot So Razò”, ossia l’unione di: una citazione lessicale (Mot), uno schema metrico-melodico spesso preesistente (So) ed un contenuto concettuale (Razò).

Pur nella conformità e regolarità ritmico-melodica, ogni cantica come ogni canto dantesco, differisce  -a motivo dei contenuti narrati- nell’agogica espressiva, nella dinamica e nella articolazione dell’esecuzione, sia questa musicale/vocale o recitativa.

Nell’Inferno regna l’immobilità, se c’è movimento è ripetitivo e si ripiega su se stesso. Le fiamme, come ci si aspetta che siano nell’Inferno, si alzano sì nell’aria ma non si estinguono e non consumano.

Il momento in cui si percepisce del movimento è la scena di Paolo e Francesca nel Canto V dell’Inferno, in cui le anime si muovono per l’aria destinate però a non raggiungere mai l’armonia dell’incontro.

Nell’Inferno, le terribili pene corporee si limitano per l’udito all’assenza di “armonia”; il vociare ed i lamenti. Raggiungono il massimo nel latrare canino di Cerbero (I. Canto VI 31-33) e sembrano tanto più miti rispetto alle punizioni degli altri sensi corporali. L’udito nell’Inferno serve ai condannati per orientarsi nelle tenebre. I suoni infernali sono caotici, senza l’ordine armonico proprio della musica; una specie di polifonia aleatoria di rumori.

Il senso della vista è punito con l’assenza di luce che raggiunge la cecità di Ciacco nel VI Canto (90-93). Nel nono cerchio in cui stanno i “Traditori degli ospiti”, un vento gelido congela le lacrime.

Vista e udito paiono essere vittime minori dei flagelli infernali.

A questo punto ricordiamoci del ruolo di Santa Lucia nella Commedia, protettrice della vista.

Luce e suono nel Paradiso hanno un rapporto sinestetico; il movimento è più volte associato alla musica (Canto X) e ne sembra trarre forza trainante in un movimento circolare, come circolare è il sistema di “ripetizione-variazione” delle Cantigas.

Nel Canto X (è mercoledì 13 aprile o 30 marzo del 1300), Dante ascende con Beatrice al quarto cielo ed “incontra” la prima corona di spiriti, tra i quali appare proprio quel Beda di cui ho trattato precedentemente. Le luci degli spiriti girano intorno a Dante e Beatrice per tre volte. Dante dice che il canto dei beati è talmente sublime da non poterlo descrivere, al contempo -quando si fermano- gli spiriti appaiono come donne che attendono la musica per riprendere a danzare. Una delle prerogative delle Cantigas è la “contaminazione” di moduli liturgici con la musica predisposta alla danza. La musica da danza sta al ciclo mariano come il volgare sta alla Commedia. Sottintende, in altre parole, alla volontà di riportare l’esperienza e la riflessione mistica a tutti i livelli sociali, usando anzi ed esaltando le qualità espressive delle classi popolari: il volgare nella letteratura, la danza nella musica.

A questo punto si potrebbe azzardare un’ipotesi; La Commedia potrebbe imitare la struttura musicale delle Cantigas?

L’Inferno dantesco pare essere “l’alter ego” del Paradiso, ovvero una diversa strutturazione della stessa “Rosa” a sette petali, come i pianeti dell’Empireo.

Il numero Nove è nella cristianità simbolo della Trinità, essendo proprio Tre la sua radice quadrata. Dante associa il numero Nove a Beatrice che gli appare all’età di nove anni, che rincontrerà nuovamente dopo nove anni, che lo saluterà nell’ora nona. Novantanove sono i canti complessivi della Commedia che, con l’aggiunta del primo dell’Inferno raggiungono il numero cento.

Ma nove sono anche i cerchi dell’Inferno dantesco. Destrutturando una rosa e ponendo i petali (Evanescenti nel Paradiso ma gravi di materia nell’Inferno) uno sopra l’altro per grandezza decrescente otterremmo una forma ad imbuto, esattamente come quella dell’Inferno.

I musicologi hanno individuato nella Cantigas un Continuum memoriale che sottintende un sistema di mobilità interna e che doveva permettere la disgregazione e la ricomposizione di un materiale melodico. Quindi, nella Cantigas, devono essere presenti degli elementi disgregabili uniti in un insieme geometrico. Questa “cellula melodica” potremmo identificarla con un petalo, posto a distanza regolare dal successivo in un sistema circolare, a corolla, proporzionato alla sua grandezza crescente o decrescente. Ed in effetti la melodia nelle Cantigas sembra strutturata in catene di intervalli di terze.

È superfluo ricordare la struttura a terzine della Commedia, la ripartizione in tre parti (Inferno, Purgatorio e Paradiso) di trentatré canti ognuno.

Il ritmo della Cantigas pare seguire le strutture melodiche nella relazione tra gli intervalli, con la coincidenza della struttura metrica del testo.

La struttura melodica è di tipo formulare in una struttura scalare, circolare come la struttura di una rosa (il movimento circolare è tipico della variazione). Se essa fosse geometricamente riportata, proporzionalmente ma verticalmente, sarebbe simile ad una struttura ad imbuto, come quella dell’Inferno dantesco.

La ripartizione interna dell’Inferno, potrebbe rimandare ad alcune relazione modali tra intervalli musicali? Sono 9 cerchi, 6 indivisi, il settimo è diviso in 3 gironi, l’ottavo in 10 bolge ed il nono in 4 zone.

I modi che io ho individuato nelle Cantigas sono nove. La melodia si muove da un ambito di gradi congiunti (semitono) con un intervallo massimo di quinta ascendente, raro l’intervallo di sesta e rarissimo quello di settima sempre con una funzione di “cerniera”.

La quinta, il numero cinque, era definito da Pitagora il “Matrimonio”, il punto di congiunzione tra maschile e femminile. Cinque è anche, e forse non è un caso, il canto dell’Inferno in cui appaiono Paolo e Francesca.

Nello specifico, i Canti centrali del poema dantesco vanno dal XIV al XX del Purgatorio.

Contando il numero dei versi, appare una “serie palindroma” di sette numeri.

XIV 151

XV 145

XVI 145

XVII 139

XVIII 145

XIX 145

XX 151

Sommando: 7-10-10-13-10-10-7

Sulle simbologie del numero sette, dieci e tredici, i rimandi sono innumerevoli nella Cabala ebraica, nella mitologia classica e nel cristianesimo.[16] Sulla positività dei numeri dieci e sette non ci sono molti dubbi, ne sorgono alcuni circa il tredici, infausto nell’antichità.  Sappiamo dal Convivio (II, XIV) della convinzione di Dante che il mondo, nell’anno 1300, si avviasse verso la sua fine, essendo iniziata -dalla nascita di Cristo- la sua sesta ed ultima “Etade”. Dante avrebbe dunque inserito, nel Canto centrale di tutta la Commedia, un numero 13 dall’interpretazione ambigua e dalla discutibile positività. E se la simbologia di questa sequenza fosse spiegabile in termini musicali? Partiamo da quel tredici centrale. Nella Cabala, nel Sefer Yetzirah ebraico, sono tre le “lettere madri”: Alef א, Mem מ, Shin ש, il numero tredici le accomuna poiché se sommiamo il numero corrispondente di ogni lettera il risultato sarà 13.  La tredicesima lettera dell’alfabeto ebraico è Mem, la centrale delle “lettere madri”. A questa lettera ebraica corrisponde la Emme dell’alfabeto italiano, che è l’iniziale di Maria come del terzo suono dell’esacordo di Guido d’Arezzo: (Ut) QUEANT LAXIS/(RE)SONARE FIBRIS/(MI)RA GESTORUM/ (FA)MULI TUORUM/(SOL)VE POLLUTI/(LA)BII REATUM/(S)ANCTE (I)OANNES.

Il tredici è detto numero aritmico perché rompe la continuità, è quindi ambivalente; può essere positivo o negativo. Nell’intonazione corretta dell’esacordo la difficoltà sta nell’intonazione del semitono diatonico.

Nell’esacordo di Guido d’Arezzo, il semitono ascendente viene sempre a nominare Mi-Fa, indifferentemente che l’esacordo sia naturale, duro o molle. Il Mi ha un ruolo fondamentale nella corretta intonazione dell’esacordo. Maria intercede tra l’essere umano e Dio, è il loro tramite più prossimo; simbolicamente è l’intervallo più piccolo; il semitono.

Oltrepassando i limiti dell’esacordo sarà necessario aggregarne uno nuovo; in altri termini bisognerebbe aggiungere una settima nota che diventerebbe veicolo all’esacordo successivo.

Nel sistema dell’esacordo di Guido d’Arezzo cambiano le note ma non le proporzioni tra esse, non gli intervalli chiamati. La serie palindroma al centro della Commedia potrebbe essere rappresentazione di un esacordo, in cui il 7 sta per l’ultima nota dell’esacordo precedente, i due 10 successivi rappresentano i due Toni interi, il 13 indicherebbe il MI – la terza che veicola “l’ambiguo” semitono -, seguono altri due 10, quindi due Toni interi. Il 7 successivo sarebbe la settima di questo esacordo, la cerniera che collega questo esacordo al successivo (È stata menzionata prima la funzione connettiva della Settima nelle Cantigas.) oppure la prima nota del nuovo esacordo.

La Cabala, come il metodo di Guido d’Arezzo per intonare gli esacordi, unisce simbolicamente la matematica all’alfabeto, il fonema alla nota, il significante col significato, evocando quell’unità primigenia dell’armonia universale; prima del peccato originale e prima della Torre di Babele.

Forse la più conosciuta delle Cantigas, la numero 10, mostra rispetto alle altre alcune anomalie. Senza scendere in dettagli troppo tecnici, dirò che andrebbe analizzata in modo comparato con il Canto X del Paradiso, poiché potrebbe veramente esserci una sovrapposizione strutturale. Tutta questa Cantiga si “inceppa” inspiegabilmente su una nota debole, il Mi, esattamente sulla sillaba “Ro” di “Rosas” per poi salire a gradi congiunti verso il Sol.  Sull’ultima sillaba (sas) della parola, il canto “scivola” verso il basso a toni congiunti raggiungendo il Re che si ripete sulla congiunzione verbale “e”. Sulle parole: “Fror da Frores” scende al Do e poi risale, sempre a gradi congiunti, con Do- Re- Fa-Fa.

E se anche la variazione nella Commedia proponesse un modulo musicale?

L’invocazione dei versi 34-5 nel XXX Canto del Paradiso: “Ancor ti priego, regina, che puoi/ ciò che tu vuoli” sono la parafrasi di quel “Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole” che abbiamo sentito tre volte. Nelle prime due volte a Caronte (Inferno III 94-96) e poi a Minosse (Inferno V 22-24), la variazione consiste nel cambiamento del primo verso della terzina, secondo e terzo verso rimangono immutati. La terza volta rivolto a Pluto (Inferno VII 8-12) la terzina è variata, conservando solo la prima parola del secondo verso: “Vuolsi”. A parte l’evidente funzione allitterativa, è una struttura della variazione questa usata da Dante che sembra ricalcare un modello della variazione melodica usato nella Cantigas.

Questi sono alcuni esempi; il metodo per individuare le “coppie modello” tra Cantigas e Canti, possono essere diversi. Si può usare la corrispondenza numerica (Per esempio: la Cantigas X e il Canto X), oppure quella inerente agli argomenti narrativi comuni (Per esempio: il Canto e la Cantiga in cui appare il simbolo della rosa), oppure individuare nei Canti sequenze numeriche che siano traducibili in strutture musicali.

I nessi tra Las Cantigas e La Divina Commedia non appaiono frutto di casualità. Questo saggio propone una traccia da seguire. Una ricerca comparata tra la Divina Commedia e Las Cantigas non è un lavoro impossibile ma difficilmente realizzabile da una persona sola. Ideale sarebbe un lavoro congiunto di esperti nell’ambito dantesco e nel campo della teoria e pratica musicale medioevale.

“Messo t’ho innanzi: ormai per te ti ciba;

chè a sè torce tutta la mia cura

quella materia ond’io son fatto scriba”[17].

Raffaella Passiatore

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Bibliografia:

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Bigatti Letizia, Le visioni dell’aldilà tra continuità ed innovazione: il caso della Visio Fursei, 2017-2018.

Bolton Holloway Julia, Brunetto Latini e Dante Alighieri. Edizioni Peter Lang, New York 1993.

Bolton Holloway Julia, Prefazione a Il tesoretto di Brunetto Latini, Edizioni Peter Lang, New York 1993.

Bolton Holloway Julia, Il pellegrino e il libro, uno studio su Dante Alighieri. Firenzelibri, 2012.

Bonaventura da Siena, de: Livre de l’éschiele de Mahomet. Bodleian Librery, Oxford.

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Cerulli Enrico, Il Libro della Scala e la questione delle fonti arabo-spagnole della Divina Commedia, Città del Vaticano 1949.

Chevalier J., A.Gheerbrant, Dizionario dei simboli, BUR Rizzoli, 1995.

Contini G. Varianti e altra linguistica, scritti danteschi, Einaudi, 1970.

Corti Maria, Dante ad un nuovo crocevia, Sansoni, Firenze 1981.

Corti Maria, Scritti su Cavalcanti e Dante, Einaudi, Torino 2003.

Grad A.D. Iniziazione alla Cabala, MEB, Padova 1986.

Mainini Lorenzo, Schema saffico e schema zaglialesco. Mot So Razó, Università la Sapienza, 2018.

Marchese Angelo, Guida alla Divina Commedia, Sei Edizioni, 1983.

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Nardi Bruno, Dante e la cultura medievale, Laterza, 1985.

Palacios Miguel Asín, Dante e l’Islam. Saggio di escatologia, 1919. Luni Editrice, Milano 2013.

Sacchi Paolo, Antico Testamento, apocrifi e Nuovo Testamento. Pellicano Rosso.

Storia della Musica, EDT, Medioevo II, R. Gallo, 1977

Storia della Musica, EDZ, Medioevo I, G. Cattin, 1979

Villani Giovanni, Nuova Cronica, Libro VII, LXXIII.

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Raffaella Passiatore è scrittrice, drammaturga e pedagoga musicale.

Dal 1989 al 2020 ha vissuto in Austria. È stata docente di Pianoforte e Musiktheater presso il Musikum di Salisburgo ed ha insegnato Italiano presso gli istituti WIFI, Dante Alighieri e l’università per il Turismo di Salisburgo.

Attiva nell’ambito della drammaturgia e regia teatrale in Austria e Germania, è vincitrice di premi internazionali.

Ha pubblicato poesia, racconti e romanzi per: Edition Exil di Vienna, Tandem Verlag di Salisburgo, Florestano Edizioni di Bari e L’Orto della Cultura di Udine. Ha pubblicato sulle riviste Il giornale della musica di Torino e Zwischenwelt di Vienna.

Dal 2020 vive stabilmente a Padova.

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[1] Torna alla mente, l’incontro di Dante nel Purgatorio (IV 97) con l’amico liutaio Belacqua, identificato nella realtà nella persona di Duccius Vocatus Belaqua; non sarebbe stato inusuale che, nelle riunioni amicali, il Belacqua avesse accompagnato al liuto o alla chitarra Dante mentre intonava i suoi versi.

[2] A. Marchese, Guida alla Divina Commedia, Paradiso, Sei Torino, 1983, pag.18.

[3] Julia Bolton Holloway, Alfonso el Sabio, Brunetto Latini y Dante Alighieri.

[4] Giovanni Villani in Nuova Cronica, Libro VII, LXXIII.

[5] La Holloway si spinge oltre, presumendo una diretta influenza di Alfonso sull’opera di Brunetto e pure di Dante: “Probabilmente fu Alfonso El Sabio che offrì a Brunetto Latini il modello per i suoi propri lavori in lingua volgare, attraverso le opere che il re gli commissionò di tradurre in castigliano, come gli scritti legali aristotelici o come la poesia mariana in gallego.” Julia Bolton Holloway, Alfonso el Sabio, Brunetto Latini y Dante Alighieri. /Pag.468

Il modello di Alfonso in libri e miniature appreso da Brunetto Latini sarà trasmesso al giovane Dante Alighieri e terminerà plasmandosi nella Commedia” (Julia Bolton Holloway, Alfonso el Sabio, Brunetto Latini y Dante Alighieri, pag.469).

[6] J.L. Borges, Saggi danteschi, L’ultimo viaggio di Ulisse. Ed. Mondadori, opere complete secondo volume, pag.1281.

[7] A proposito dello stato di malattia così, scrive Letizia Bigatti: “Questa condizione d’infermità, che si verifica prima di entrambe le visioni, era recepita dall’autore della Vita Fursei come un passaggio necessario al fine della rivelazione estatica, costituendone così il prologo, secondo uno schema convenzionale e quasi stereotipato riportato da molti resoconti dell’aldilà: famoso è il caso dei Dialogi di Gregorio Magno, dove assistiamo allo stesso procedimento narrativo, utilizzato dal pontefice per esporre un exemplum di esperienza visionaria” (Letizia Bigatti: Le visioni dell’aldilà tra continuità ed innovazione: il caso della Visio Fursei, Tesi di Laurea Triennale in Lettere, a.a. 2017-2018 relatore Prof.ssa Rossana E. Guglielmetti, pag.8).

[8]“A dare un impulso notevole nell’evoluzione del genere visionario intervenne poi Beda. Egli, benchè in misura inferiore rispetto a Gregorio Magno, divenne presto un punto di riferimento nel panorama letterario medievale. Le Visiones inserite all’interno della sua Historia Ecclesiastica erano note non solo nelle isole britanniche, ma anche nel continente, poiché autori successivi, anche provenienti da aree geografiche differenti, ne riprendono spesso i contenuti” (Letizia Bigatti: Le visioni dell’aldilà tra continuità ed innovazione: il caso della Visio Fursei. Tesi di Laurea Triennale in Lettere, a.a. 2017-2018 relatore Prof.ssa Rossana E. Guglielmetti, pag.25).

[9] Nel prologo Bonaventura scrive: “Questo libro fu scritto da Mahoma, e gli mise questo titolo (La scala di Maometto), e fu tradotto dall’arabo allo spagnolo da Habraym, giudeo e fisico, per incarico del nobile Signore Don Alfonso: (…)e tal quale fu tradotto dall’arabo allo spagnolo dal già citato Habraym, esattamente nello stesso modo con tutti suoi dettagli io, Bonaventura da Siena, notaio e scrivano del mio Signore il Re sopracitato Alfonso X, per suo ordine lo ho tradotto dallo spagnolo alla lingua latina nel modo migliore che ho saputo fare. E ho fatto la traduzione di questo libro molto volentieri per queste due ragioni: la prima per soddisfare la richiesta del mio Signore, la seconda affinché si conosca la vita e l’insegnamento di Maometto. (…) E se la versione francese che ho fatto riporta alcuni errori e non è tradotta abbastanza correttamente come avrebbe dovuto, prego tutti quelli che conoscono bene il francese di perdonarmi; perché vale più che essi dispongano di questa opera nello stato attuale che invece ne facciano a meno»

(Bonaventura da Siena, de: Livre de l’éschiele de Mahomet. Bodleian Librery, Oxford; E. Cerulli, Il “Libro della Scala” e la questione delle fonti arabo-spagnole della “Divina Commedia”, Città del Vaticano, 1949).

[10] Scrive Palacios: “La tesi di questo libro suonerà all’orecchio di qualcuno come un sacrilegio artistico, o forse disegnerà sorrisi ironici sulle labbra di parecchi i quali credono ancora nell’ispirazione dell’artista come un fenomeno sovrannaturale, indipendente da ogni studio imitativo di modelli altrui” (Miguel Asín Palacios, Dante e l’Islam, Saggio di escatologia, 1919).

[11] Scrive Palacios: “Dante si misura con Omero senza esserne vinto. Noi, diciamolo senza falsa modestia, siamo più dotti di lui e forse per questo non siamo poeti” (Miguel Asín Palacios, Dante e l’Islam, Saggio di escatologia, 1919).

[12] Dante si discosta dal dettato biblico dei quattro fiumi (Fison, Gehon, Tiri ed Eufrate) ed invece racconta di due corsi d’acqua che appaiono ne La scala di Maometto e che appartengono alla tradizione islamica e non a quella giudaico-cristiana. Sono due le sorgenti, una che induce alla memoria e la seconda all’oblio.

[13] Palacios sostiene che: “Nessuno dei presunti precursori, classici o cristiani, della Divina Commedia offriva a Dante un modello caratteristico tanto quanto la leggenda musulmana» (Miguel Asín Palacios, Dante e l’Islam, Saggio di escatologia, 1919).

[14] Julia Bolton Halloway scrive: “Alfonso El Sabio, ben avrebbe potuto inviar a Brunetto Latini – e alla Firenze che rappresentava – il magnifico esemplare de Las Cantigas de Santa Maria che adesso s’incontra nella Biblioteca Nazionale”. (Julia Bolton Holloway, Alfonso el Sabio, Brunetto Latini y Dante Alighieri, pag.458).

[15] Così scrive Mainini:“I generi arabo-andalusi, coi loro schemi, sarebbero sorti, secondo un’antica vulgata, verso il ix–x secolo, caratteristici dell’occidente arabo – rispetto alle forme ‘classiche’ dell’oriente –, dando piena attestazione fra xi e xii secolo, e pertanto, secondo alcuni, avrebbero agito sulle prime esperienze volgari, di confine e contatto transpirenaico: nell’inno di San Marziale di Limoges In hoc anni circulo (xi ex.), nelle strofe di Guglielmo  IX e Marcabru, e poi di qui, ormai accetti alla metrica romanza, trapassati nelle Cantigas mariane di Alfonso X, in molte delle più antiche laudi italiane, nella lirica d’oïl, in quella galego-portoghese.”

Secondo Mainini l’area geografica toscana ne è pienamente coinvolta:

La strofa detta zagialesca – o un suo derivato – è dunque tanto più nodale quanto più se ne osserva la geografia, di gran lunga eccedente – nell’arco d’un secolo e poco più della sua storia, dal xiii in poi – l’area genericamente transpirenaica, per comparire invece – come s’è detto – in vari luoghi della penisola iberica, nell’Italia tosco-centrale, nel nord francese; uno sviluppo, quest’ultimo, spiegabile o col successo di un’invenzione puntuale, importata o autoprodotta, oppure col suo opposto, ovvero la negazione d’una monogenesi, in favore di percorsi formali più frammentati, ma comprensibili sulla base degli schemi poetici già in essere nella tradizione mediolatina e nell’innologia in modo particolare” (Lorenzo Mainini, Schema saffico e schema zaglialesco, pag.28).

[16] Sette i giorni della settimana, sette i pianeti dell’Empireo, sette i gradi della perfezione, sette le gerarchie angeliche. Sette è la somma del quattro -simbolo della terra- e del tre – simbolo del cielo -, quindi rappresenta la totalità dell’universo. Qualcosa di simile indica questo numero nella cultura islamica e in quella ebraica; nel Talmud il numero sette rappresenta la totalità umana nell’unione di maschile e femminile. Sette è anche il numero dei petali della rosa.

Il dieci viene esaltato nella Tetraktys pitagorica; era il più sacro dei numeri e simboleggiava la creazione universale.

Nell’antico Testamento il decalogo (i dieci comandamenti) è l’insieme della Legge nella sua molteplicità ugualmente unitaria. Le Sephirotebraiche sono dieci. Dieci sono i cieli dell’Empireo.

Un po’ più controverso il tredici centrale. Nell’antichità era considerato infausto e, in ambito cattolico, il tredicesimo capitolo dell’Apocalisse è quello dell’anticristo e della Bestia. Tuttavia, all’interno di un gruppo, come in questo caso, il tredicesimo anche nell’antichità è il più sublime e potente. Per esempio Zeus, nel corteo delle dodici divinità; e poi Ulisse che passa sotto il ventre del montone come tredicesimo e sfugge alle fauci del Ciclope. Ad ogni modo il tredici è detto numero aritmico perché rompe la continuità, è quindi ambivalente, può essere estremamente positivo o estremamente negativo. È l’unione del numero uno, origine di tutte le cose e simbolo del monoteismo e il tre, simbolo della trinità; completezza e perfezione.

[17] Dante Alighieri, La divina Commedia, Paradiso, Canto X, 25-27

 


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