
Di sicuro, Grilli parlanti, a digiuno di garantismo e di giustizia
In questi ultimi mesi stiamo vedendo il movimento grillino che riplasma quasi ogni regola per far continuare a correre politicamente i propri leader, divenuti tali per le battaglie sull’anti-poltronismo. Giustizialismo, anti-casta, anti-poltronismo, politica come servizio che non avrebbe dovuto vedere i politici come indispensabili bensì come sempre fungibili; e ancora, limite dei due mandati, poi la trovata del mandato c.d. zero: il corso del movimento grillino, insomma, ha destato più di qualche perplessità ai vecchi innamorati delle retoriche populiste doc, vedendo oggi come è diventato. Un Conte – oggettivamente signorile – per sopravvivere.
Preme quindi andare a qualche radice pregnanti delle vere Rivoluzioni, dato che l’elettorato grillino della prima ora ha ben capito che quella di un tempo è stata una rivoluzione mai iniziata, se non proprio tradita. L’ultima dignitosa rivoluzione che l’Europa ha conosciuto e vissuto con onore – togliendo il periodo c.d. giacobino o del Terrore e facendo salvi i tanti limiti del cattivo radicalismo – è la Rivoluzione francese, che fu un processo indicativamente segnato con l’anno 1789. La Rivoluzione francese rappresentò in realtà un processo storico molto più lungo, nelle sue articolazioni dialettiche. I risultati della de-aristocratizzazione e della liberalizzazione delle borghesie ce li portiamo piacevolmente dietro ancora oggi, pur con i vari limiti sociali. Nulla è perfetto, tutto è sempre perfettibile.
Il 26 agosto 1789 fu proclamata dai rappresentanti del popolo francese la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino. Nell’atrio concettuale nonché dispositivo dell’articolato della Dichiarazione, è possibile leggere uno dei fini perseguiti con quelle solenni affermazioni di diritti: “affinché gli atti del potere legislativo e quelli del potere esecutivo traggano maggior rispetto dal fatto di poter essere in ogni istante confrontati con il fine di ogni istituzione politica”. I diritti venivano riconosciuti e dichiarati, in una visione ancora figlia di un giusnaturalismo dei diritti umani inalienabili, che presto avrebbe lasciato il posto all’altra faccia della propria medaglia nomopoietica, ossia al giuspositivismo, nella misura in cui questo fosse capace di farsi illuminare dal movimento culturale del costituzionalismo liberaldemocratico.
Scolpito nell’articolo 4 della Dichiarazione è il contenuto della libertà stessa, della libertà in sé:
“La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri: così, l’esercizio dei diritti naturali di ciascun uomo ha come limiti solo quelli che assicurano agli altri membri della società il godimento di questi stessi diritti. Questi limiti non possono essere determinati che dalla legge”.
In un’ottica garantista – dell’epoca – al contenuto della libertà di cui all’articolo 4, seguono gli articoli 7 e 8 della Dichiarazione.
L’articolo settimo ha sancito che nessun uomo può essere accusato, arrestato o detenuto se non nei casi determinati dalla legge, e secondo le forme da essa prescritte; che coloro i quali sollecitano, spediscono, eseguono o fanno eseguire ordini arbitrati devono essere puniti; che ogni cittadino citato o tratto in arresto in virtù della legge deve obbedire all’istante e che opponendo resistenza si rende colpevole.
L’articolo ottavo invece ha disposto che la legge deve stabilire soltanto pene strettamente ed evidentemente necessarie e che nessuno può essere punito se non in virtù di una legge stabilita e promulgata anteriormente al delitto, nonché legalmente applicata.
A coronamento di queste perle dal sapore di neo-magna-Charta libertatum (questa volta francese!) della fine del XVIII secolo, vi è l’articolo 12. Quest’ultimo sanciva che la garanzia dei diritti dell’uomo e del cittadino ha bisogno di una forza pubblica, e che tale forza era istituita per il vantaggio di tutti e non per l’utilità particolare di coloro ai quali essa era affidata.
Forti di queste pregnanti e paradigmatiche tappe del divenire storico-dialettico del garantismo, oggi ascoltiamo e guardiamo invece i video di Grillo, con un po’ di rammarico, quel po’ che basta per poi tracciare le differenze di mentalità e di stile civico. Occorre riferirsi al Grillo padre del Movimento Cinque Stelle, e non al Grillo padre di un giovane figlio in carne ed ossa, ovviamente.
Tra il giustizialismo dei tempi in cui all’interno dei Cinque Stelle c’era chi voleva processi sommari contro ogni forma di violenza, oltre che aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno e fare processi popolari ai giornalisti (cose da dittatura!), da un lato, e le raffiche di chiusure di occhi e di rimodulazioni totali odierne, dall’altro lato, c’è un pendolo che sta impazzendo a star dietro ai troppo repentini cambiamenti, veri o presunti, o di comodo. Mi sovviene gentilmente un breve passo di un racconto epistolare che scrissi quando avevo 15 anni e che pubblicai qualche anno dopo. In quel passo del racconto epistolare, che intitolai “Stretti nella solita camicia (di forza!)”, provai ad immaginare e a descrivere il dramma di un personaggio che si appercepiva come un pendolo umano, oscillante tra due poli socio-esistenziali fatti di suggestioni e rarefazioni contrapposte ma non sempre contrapponibili. Qual è il passo? Eccolo:
«Sono solo una “e” congiunzione (forse) che unisce o divide (o piange o spera) due mondi comunque indistinti, mai colti a fondo, probabilmente. Un punto che si vede e non si vede».
[…] Senza grilli per la testa o grilli senza testa? […]