Sei giochi, sei dimostrazioni di sopravvivenza…

456, un numero, quello sul petto di un concorrente alla prova del nove, nove come gli episodi di Squid Game, la nuova serie Netflix diretta da Hwang Dong-hyuk che ha registrato, dopo soli 28 giorni dalla messa in onda, già 111 milioni di visualizzazioni.

Squid Game, ovvero il gioco del calamaro, quello a cui sono sottoposti donne e uomini sudcoreani in fuga dalle criticità del proprio quotidiano, dai disagi sociali di una condizione economico-finanziaria instabile del Paese Asiatico dove la repressione annulla le individualità, l’orgoglio e i sogni di cittadini disposti a tutto pur di mettere le mani su quel salvadanaio gigante che sovrasta un dormitorio che ricorda colonie di formiche.

Sei giochi, sei dimostrazioni di sopravvivenza, scale che Escher ha ispirato per simulare l’eterno ritorno, volontario, allo specchio delle proprie coscienze, sei ricordi di infanzia quando superare “Uno, due, tre…stella ” o mangiare biscotti di zucchero a forma di ombrello, stella, cerchio o triangolo era semplice divertimento, un’innocenza ora trafugata, umiliata e violentata dalla voglia di riscatto al caro prezzo della morte.

L’occhio orwelliano della bambola robot controlla tutti nel distopico mondo di finta libertà, è l’arbitrio che inneggia alla vittoria, il tutti contro tutti che ti desta di notte per sfuggire alle risse in una sorta di cameratismo federato nel quale a spuntarla è colui che osserva la legge darwiniana dell’adattamento, la fiducia come schermo protettivo o, forse, come ultimo appiglio, avvolti da tute da trainingbok per tracciare il solco che divide buoni e cattivi.

Sinfonia n. 5 di Beethoven e Fly me to the Moon accompagnano, col “Frontman”, i protagonisti al patibolo nella speranza di un futuro che Samuel Beckett definirebbe effimero, è la paura che si trasforma in saggezza, la canuta esperienza di un anziano, pigmalione nei valori, mentore di pax e dispensatore di consigli, l’arrivo numero 1, la consapevolezza che non esista differenza fra le persone ricche e quelle povere, perché le persone ricche spesso si annoiano e diventano incapaci di gioire.