Antigone e Creonte, li conosciamo. Una tragedia, un classico che non parla a noi ma di noi. Di tutti noi. Il glorioso scontro tra una sorella passionale e suo zio, nuovo re di Tebe, che le nega il permesso per la sepoltura del fratello di lei.

Poco interessa ripassare dettagliatamente le fila della trama, famosa e risaputa. Una cosa, però, va tenuta a mente: Polinice non può essere sepolto perché ha combattuto non solo contro Eteocle, suo fratello, ma contro tutta la città di Tebe. È, insomma, un traditore.

Fatidica ritorna la domanda: Chi ha ragione? Antigone ama suo fratello, Creonte difende la città: due posizioni escludentisi a vicenda che hanno entrambe diritto di essere. Il dilemma è irresolubile, proprio come vuole la tragedia.

Antigone si appella alle leggi divine, non scritte. Il fratello andrebbe sepolto perché così vogliono gli dei. Possono, gli uomini, contraddirli?

Creonte replica con le leggi del suo editto, umane e scritte. Egli, morti Eteocle e lo stesso Polinice, è l’unico ascendente maschio sopravvissuto: il suo editto, le sue leggi, sono formalmente valide. Proprio per questo nessun Ateniese avrebbe urlato allo scandalo: Creonte agisce “politicamente” per il bene della polis.

È, tuttavia, una lettura assai limitante, quella, storica, che risolve la tragedia in un banale scontro tra leggi scritte e leggi non scritte. L’Antigone, è molto di più. È un interrogativo radicale tra due modelli prima politici e poi anche umani e giuridici.

Antigone, almeno all’inizio, è aperta al dialogo e prova a spiegare che non tutto il Diritto si esaurisce nelle leggi scritte. Suo zio, dalla sua, replica il contrario. Creonte, “rex absolutus”, è sciolto da ogni volontà che non sia la propria e sembra ripetere quasi ossessivamente quanto affermato da un certo Hobbes secoli dopo: “Auctoritas non veritas facit legem”, come a dire che la Polis appartiene al sovrano e questi ne può fare ciò che desidera. Antigone, sdegnatasi, chiude ogni speranza di dialogo iniziale e resta ferma sulla sua posizione.

La battaglia prima che giuridica è politica. Antigone si fa sostenitrice delle leggi non scritte perché crede che esse sole siano la vera identità di un popolo, quelle la cui memoria spetta agli anziani. È lei la vera conservatrice.

Creonte, invece, da sovrano assoluto, si ritrova inaspettatamente rivoluzionario illuminato che, per primo, afferma che legge è il frutto della sua volontà autoritativa.

Ciò che entrambi si rifiutano di capire, ad ogni buon conto, è che il problema non si pone in termini di superiorità quanto in quelli di coesistenza dei due modelli di vita. Entrambi, infatti, non fanno altro che eccettuarsi da una relazione di tipo dialogico pretendendo che il criterio regolativo delle loro azioni (e quello degli altri) siano esclusivamente fondato sulla propria volontà che non si offre a negoziazioni.

Sofocle, l’autore della tragedia, lancia un messaggio implicito ma forte: che non ci si abbandoni ad un pretestuoso “prendere le parti”, bisogna che ci apriamo al dialogo. Solo il dialogo, infatti, apre la strada ad un principio e se l’uomo agisce in conformità di un principio impedisce al proprio particolare di affermarsi come assoluto. Pena? Il nulla: Creonte finisce per perdere tutto, Antigone si uccide.