Questioni di lessico familiare e di radici e di viti

Avevamo un terreno tutto a vitigno, file e file a spalliera di rosato con qualche pianta di bianco e di rosso scuro. Terreno in discesa dove quando pioveva l’acqua si impantanava. Un anno che piovve tanto si creò un piccolo stagno e ci trovammo finanche gli animali a bere. Stormi di uccelli che si alzavano danzando, sembrava un’oasi perduta. Complice quindi la terra umida che gonfiava i grappoli, ne veniva poi fuori un liquido trasparente, apparentemente leggero, in realtà ingannatore.  Nella mia megalomania, lo chiamavo il terreno del lago.

La vigna in realtà è una pianta semplice e facile è raccogliere i suoi frutti dolci e sbrodolosi. Forse per convincerci al lavoro come realtà necessaria che è meglio prenderla con allegria, mio padre diceva che vendemmiare è una festa.

Ora ci sono famiglie e famiglie e ci sono feste e feste. Io mi sono sempre adeguata per natura e per timidezza. Anche per fiducia direi, poiché cercavo davvero la festa e più non la trovavo e di più insistevo.

Era il tempo dei bambini come normale proseguo della vita degli adulti. Il nonno dirigeva, il papà eseguiva e il bambino completava, riempiva gli spazi piccoli. C’erano tini grandi per i grandi,  medi per le donne e piccoli per i piccoli. C’erano forbici affilate e piccoli coltelli che proprio non tagliavano. C’era mia sorella che per non rovinarsi capelli e mani si imbacuccava con guanti e foulard. Nessuno però le dava retta, perché a notarla bisognava constatare che la festa non c’era, almeno per lei. Su tutto, un sole color ocra che non ti mollava ovunque stessi.

Ora il vino si compra. Ci sono tante cantine e altrettanta gente che davvero ne capisce. Si parla di tannini e solfiti, si annusa il tappo, lo si fa decantare. Si stabilisce addirittura l’abbinamento coi cibi.

Noi cantavamo mentre vendemmiavamo e poi ci mettevamo a pigiare i chicchi di uva.

La festa alla fine finalmente si mostrava ma era per le api già ubriache e per i moscerini in primissima fila.

Un senso di soddisfazione però pervadeva tutti, forse anche mia sorella.

Quando in una enoteca una sera mi vollero per forza deliziare con un  invecchiato di notevole valore, mentre tutti annuivano convinti io sorrisi di degnazione.

Che ne sapeva quella gente del nostro rosato che nessuno  pensava a chiamarlo fermo, delle strattonate di mio nonno per cui la campagna era davvero cosa seria, dell’amore di una famiglia che cercava di esserlo.

La calda estate cedeva il passo a foglie verdi rosse gialle, l’autunno era volteggiante alle porte.

Cosa resta? Che cerco tuttora la festa e la gioia perché così mi hanno educato.

È sempre un discorso di lessico familiare e di radici e di viti e terra e di certo di dolcezza.

Perché il vino è il figlio dell’uva e dell’uomo che l’accarezza.