La sofferenza della terra dei cedri
Il Libano era un tempo una regione rigogliosa e fertile, dal forte retaggio biblico. Questa terra, infatti, incastonata oggi tra confini particolarmente caldi e insanguinati, che si affaccia su quel Mediterraneo che lo accomuna a noi occidentali, dimentichi e un po’ refrattari a capire il dramma che a quelle latitudini si sta vivendo, era ed è famoso soprattutto per i suoi cedri, simbolo di questo Paese che affonda le sue radici nell’antichità dei popoli. In un passo della Bibbia, che in questi giorni sta tornando alla ribalta anche grazie ad opere letterarie, si legge: «Si saziano gli alberi del Signore, i cedri del Libano da lui piantati» e in un altro si dice ancora: «Il giusto fiorirà come palma, crescerà come cedro del Libano; piantati nella casa del Signore, fioriranno negli atri del nostro Dio.»
C’erano una volta cedri verdi e fiorenti che tappezzavano gran parte di questo territorio, benedetto dagli uomini e da Dio, così come lo era Israele che sembrava vivere in un rapporto di profonda armonia con il suo vicino: «Sarò come rugiada per Israele: fiorirà come un giglio e metterà radici come un albero del Libano, si spanderanno i suoi germogli e avrà la bellezza dell’olivo e la fragranza del Libano.»
Oggi quei cedri, simbolo del paese e persino immortalati nella bandiera del Libano, sono drasticamente diminuiti e sono a rischio estinzione, e Israele non guarda più a quella terra come al tempo dei suoi padri, antenati comuni di entrambi i popoli. È sotto gli occhi di tutti il dramma di una guerra, prossima al suo primo anno, che adesso ha coinvolto apertamente il Libano e Hezbollah, “il partito di Dio”, che con la morte di Hassan Nasrallah è stato decapitato e vive giorni di sbandamento. Nasrallah era alla guida da più di trent’anni ed era un nemico giurato di Israele, a cui dichiarò guerra nel 2006. Un conflitto breve, come i tanti che hanno segnato il Medio Oriente, ma lancinante, pericoloso che ha prodotto la Risoluzione 1701 dell’ONU, rimasto in parte sulla carta. La morte del leader ha aperto per breve tempo il rebus sul successore, che pare essere diventato il suo vice Saffiedine. Alla notizia della morte di Nasrallah, sulle calde spiagge di Tel Aviv, ci sono stati degli applausi, non certo rivolti al primo ministro Netanyahu.
Non sempre le sue decisioni sono state popolari.
Criticato pesantemente per la riforma della giustizia, ha usato il conflitto per raffreddare gli animi ma è risultato ancora impopolare anche durante la gestione successiva all’attacco del 7 ottobre, a partire dalla questione degli ostaggi, che secondo l’opinione pubblica sarebbero stati uccisi anche per colpa sua.
È un personaggio che non segue le richieste degli americani, alleati storici del potente Stato d’Israele, testardamente inflessibile e irriducibilmente fermo sulle sue scelte, criticate dal presidente Biden a più riprese che l’ha accusato di aver fatto poco per trovare un accordo con Hamas per la fine delle ostilità a Gaza e per la liberazione degli ostaggi che sono ancora in vita, quasi ad un anno dal 7 ottobre 2023. Il suo atteggiamento è quello di un signore della guerra, teocratico, intransigente e convinto di dover portare a compimento gli obiettivi di Israele, ossia sradicare a Gaza Hamas e a nord Hezbollah, il cosiddetto Asse della resistenza, mosso dall’Iran, acerrimo nemico di Israele, che promette la sua distruzione definitiva. Durante l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il primo ministro israeliano è intervenuto mostrando due mappe geografiche. Nella prima erano definiti con il verde i Paesi benedetti (blessing), laddove il concetto di benedizione biblica rievoca quello della prosperità elargita da Dio. Europa, India, Egitto, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti sarebbero la parte buona che orbita attorno a Israele. Questi Paesi, che godono anche di una certa economia sana, sono uniti da future iniziative economiche e commerciali. Tra questi figura l’Egitto, ex nemico di Israele, che il favore del vicino se l’è conquistato dopo le guerre del secolo scorso ed oggi è un interlocutore fondamentale nel contesto della regione, e l’Arabia Saudita con la quale Tel Aviv ha normalizzato le sue relazioni. Ci sarebbe un islam sano, benedetto che contribuisce alla crescita economica di due miliardi di persone. Sull’altra cartina gli Stati maledetti (curse), indicati con il colore nero, quelli che non consentono il bene economico della regione e che hanno creato un fronte ideologico, politico ed economico pernicioso contro la crescita del Medio Oriente. Iran, Siria, Libano, Iraq e Yemen, che compongono il fronte di questi nemici di Israele e che hanno al loro interno strutture fondamentaliste e paramilitari come Hamas, Hezbollah e Houthi, metterebbero a rischio lo Stato di Israele e la sua esistenza.
La diplomazia intanto sembra faticare di fronte a tanto ostracismo di Netanyahu. Biden ha affermato che parlerà con il premier israeliano per evitare una guerra totale in Medio Oriente, anche se l’Iran pare restio a farsi coinvolgere in un conflitto che infiammerebbe tutta la regione. Mentre scrivo Israele ha già iniziato la sua operazione di terra sul territorio del Libano minacciando di mettere sotto tiro Beirut nel breve tempo, dimostrando con i fatti che Netanyahu è pronto a portare a termine la sua guerra ai nemici maledetti con attacchi mirati e limitati perché non basta l’eliminazione di Nasrallah, il premier vuole il definitivo annientamento di Hezbollah, così come di Hamas. Ma in questo cruento gioco di guerra, nel quale Netanyahu si è erto come assoluto padrone delle strategie (in realtà confuse) della risposta al male, paga come sempre la povera gente che rischia di vivere quello che ha sofferto la popolazione di Gaza. Ma Netanyahu andrà avanti, mostrando la sua dura cervice, un vizio e un difetto atavico del popolo ebraico, che ha dimenticato il tempo in cui Jahvè elargiva le sue benedizioni alle palme di Israele e ai cedri del Libano, proprio quelli che oggi languono solitari e tristi nel tempo della guerra.