È disponibile in libreria e negli store online “Hilla Von Rebay – La donna dell’arte”, il nuovo romanzo dello scrittore romano Luca Berretta, edito da Morellini. Con questo romanzo Luca Berretta riconosce, con uno stile intimo e partecipato, a Hilla Von Rebay, fondatrice del Guggenheim Museum di New York, il posto nella storia dell’arte del Novecento che non le è stato sempre riconosciuto.

Ciao, Luca. In che modo l’arte e l’amore fra Hilla von Rebay e Rudolf Bauer ha sublimato, e poi annientato, lo spirito creativo di questa donna?

La forza di lei non si è mai arresa alla “non” considerazione che aveva Bauer della pittura di Hilla, specie per quella figurativa. Lei ha amato la pittura di Bauer, l’ha promossa, ma non si è mai arresa alla sua indipendenza. Il suo spirito creativo non è mai cessato anzi si è arricchito di nuove influenze artistiche con Arp e il “collage”.

Com’era considerata l’arte femminile durante gli Anni Venti, quelli della generazione perduta di Modigliani ed Hemingway?

Gli Anni Venti, specie a Berlino, sono stati, artisticamente parlando, esplosivi. C’erano alcune donne molto importanti ma l’arte pittorica, specie in quegli anni, è stata soprattutto maschile. Una donna in particolare, Else Lasker-Schuler aveva fondato con Herwarth una rivista letteraria, Der Sturm, che promuoveva talenti artistici, frequentava il Romanisches Cafè dove la cultura di allora passava. O Anita Berber, attrice e scrittrice, figura ritratta nel celebre dipinto di Otto Dix, il cui apporto artistico fu decisivo nell’abbattere quei tabù che avevano relegato le donne a mamme felici e padrone del focolare domestico.

Fondando il Guggenheim Museum di New York, cosa ci ha lasciato in eredità Hilla?

Forse il museo d’arte moderna più importante del mondo. E grazie a lei, quel museo, in quegli anni, acquistò con la Fondazione Guggenheim di cui lei era curatrice, una delle più importanti collezioni d’arte che l’America possiede. Non solo. Il suo lavoro, la sua determinazione, unita a quella di Solomon Guggenheim, servirono a salvare dalla distruzione migliaia di quadri che il nazismo aveva definito “Arte degenerata”. Un’importantissima e inestimabile eredità.

A chi dedichi il romanzo?

A mio fratello Stefano, scomparso due anni fa per covid.


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Iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Puglia, ho iniziato a raccontare avventure che abbattono le barriere della disabilità, muri che ci allontanano gli uni dagli altri, impedendoci di migrare verso un sogno profumato di accoglienza e umanità. Da Occidente ad Oriente, da Orban a Trump, prosa e poesia si uniscono in un messaggio di pace e, soprattutto, d'amore, quello che mi lega ai miei "25 lettori", alla mia famiglia, alla voglia di sentirmi libero pensatore in un mondo che non abbiamo scelto ma che tutti abbiamo il dovere di migliorare.