
«Epperciò vi ripeto che la mano che dà da bere e da mangiare vale di più della preghiera che risuona in migliaia di chiese. Così diceva la Bella Parola di Bonaventura Mangiaterra»
A raccontarlo è Pulvara, dai lunghi capelli ingrigiti con una fascia sbrindellata in modo che non si impiglino nei rovi della brughiera.
Siamo fra le pagine del romanzo storico “Il gioco di Santa Oca” pubblicato da La nave di Teseo Editrice e scritto da un’abile Laura Pariani, con numerose pubblicazioni in attivo.
Nell’autunno 1652 mentre nobili e soldati depredano i paesi della brughiera lombarda, prende avvio un movimento di reazione e queste son faccende non solo di legge ma anche di religione.
Alcuni vogliono far passare Bonaventura Mangiaterra come una leggenda malefica.
Ma i nati in brughiera «son creature ignude e spogliate d’ogni condizione… gente senza parole».
La brughiera talora par trattenere il respiro, talaltra nel rumore degli alberi fa salire al cielo il morso dell’inquietudine di chi vuole riassaporare il gusto della libertà.
In un dialetto lombardo pregnante che rende viva la narrazione e seguendo le caselle di un gioco che pare reale, quello di Santa Oca, vent’anni dopo Pulvara racconta le vicende di Bonaventura Mangiaterra avvicinandosi al mistero della sua esistenza.
Bonaventura mostra coraggio sin da piccolo. Gli Ispagnuoli sono gente che «comandano a bacchetta e pagano col bastone».
Nello spazio sperduto del bosco fra pietraie intrise di storia e di sangue in un’altalena di ricordi Pulvana tesse storie che incantano gli uditori in cambio di un tozzo di pane e di qualcosa da bere.
«I ricchi sono i veri figli del Male» afferma Bonaventura «mica noi pitòcc».
Tutto è frutto di calcoli ben precisi e di previsioni fino alla casella 63, il Giardino di Santa Oca, che attende i camminanti «come premio finale dopo aver percorso sta lagrimrumvàlle».
Dodici anni durò il viaggio di Bonaventura per tornare a casa e dodici furono i primi pitocchi che decisero di unirsi a lui. «Lo sa Dio perché Bonaventura era tornato al paese».
I Franzè che passavano per la brughiera avevano tagliato viti e biade, molestato i vecchi, infilzato i bambini, violentato e ucciso ragazze. I tribunali non davano risposta alle richieste di giustizia.
«Il povero non è creduto. Siamo come le spighe, ci mangiano e ci calpestano. Per il pitocco non c’è giustizia, solo la forca».
Al lettore la decisione dei pitocchi di riunirsi e combattere i soprusi appare necessaria, perché è addentrato nel malessere di chi subisce, nel dolore di chi non può parlare, nello sguardo incredulo di chi si vede portar via tutto e il cuore tintinna come un sonaglio di misericordia.
Emerge una religiosità popolare, semplice, di tutto rispetto, fatta di formule, di confidenze, di appelli nei garbugli della notte profonda, di azzardi pur di farsi giustizia.
La carestia, la peste, la guerra hanno generato rabbia negli animi fra gli strani presagi di oche che volano basse, a gruppi, come angeli neri.
La stupidità, l’invidia e la cupidigia rovinano anche le bande più unite e di qui l’inizio dello sfacelo, insieme al tradimento.
Mentre Pulvara ricorda e le caselle raddoppiano, mentre le superstizioni fanno tremare e le fila del discorso traboccano di affettuosa malinconia, mentre la riverenza dei nobili è un ingrato compromesso e i curati mugugnano recitando il miserere per le anime del purgatorio, l’agguato della verità giunge come monito e sfida a superare altre prove.
Chissà se la calma davvero arriva dopo lampi e tuoni!
La mente vaga e l’inverno invita a chiudere gli occhi ma è nella chiara luce che si scrutano i dettagli.
Le oche non mentono. Un uomo ha amato Pulvara. Manfrè traditore. La storia ricuce, mette a tacere le crudeli ferocie e nella confusione di un sogno tutto si dipana.
Il coraggio muove le idee e le azioni. Poi le cose più importanti accadono con un balzo lieve. Inavvertitamente!