
«Quando io ero un bambino, il maestro era con la M maiuscola, era il “signor maestro”, il professore il “signor professore”»
(Giuseppe Valditara)
Due giorni fa parlavo di teoria della scuola a studenti della Facoltà Teologica Pugliese. Dicevo loro che il panorama di cambiamenti sociali degli ultimi cinquant’anni è tale che è ovvio che la Scuola faccia fatica a tenere il passo coi tempi.
Di contro, lamentavo il fatto che la faziosità degli insistiti tentativi di riforma della Scuola non lasci spazio a ottimismi di sorta: la Scuola non la si può cambiare con un colpo di spugna ad ogni nuovo subentrante ministro (tredici solo in questo secolo: in media, uno ogni anno e otto mesi…).
La riforma della Scuola, aggiungevo, prima di corposi investimenti, ha necessità di un miracolo paragonabile a quello accaduto con la stesura della nostra Costituzione, quando i “padri costituenti”, molti dei quali in realtà ragazzini imberbi, furono capaci di fare ciascuno un passo indietro per compierne ben più di uno in avanti, tutti insieme: è così che è nata “la più bella del Mondo”: «Ma non vedo – chiosai – come questo miracolo possa oggi ripetersi per innovare, su basi solide e condivise, la Scuola».
E qui ho presentato le mie scuse: «Ragazzi, vi devo chiedere scusa. Si dice che si nasce incendiari e si muore pompieri. Temo di essere nato ottimista e di morire pessimista. Vi chiedo scusa. Voi avete diritto a qualcosa di meglio della mia amarezza».
Bene. Lascio quell’aula, accendo il cellulare e guardo con viva sorpresa un video giratomi da un mio fraterno amico.
Ascolto: «Se ci si limita a sospendere per un anno, il rischio è che quel ragazzo vada poi fuori dalla scuola a fare altri atti di teppismo. O magari addirittura si dia allo spaccio, o magari si dia alla microcriminalità. Quel ragazzo deve essere seguito. Quel ragazzo deve fare i lavori socialmente utili, perché soltanto lavorando per la collettività, per la comunità scolastica, umiliandosi anche – evviva l’umiliazione che è un fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità – di fronte ai suoi compagni è lui, lì, che si prende la responsabilità dei propri atti e fa lavori per la collettività. La stigmatizzazione pubblica: questo ragazzo ha sbagliato e nessuno, nessuno è legittimato a dire: no, ma questo ragazzo, in fondo, magari, poteva avere le sue motivazioni».
Ora, potrei confessare che non vedo come ci si possa «limitare a sospendere per un anno uno studente». Potrei osservare, cosa che in tanti hanno già fatto, che lo Statuto delle studentesse e degli studenti, già dal 1998, prevede testualmente: «Le sanzioni sono sempre temporanee, proporzionate alla infrazione disciplinare e ispirate, per quanto possibile, al principio della riparazione del danno. Esse tengono conto della situazione personale dello studente. Allo studente è sempre offerta la possibilità di convertirle in attività in favore della comunità scolastica».
Potrei anche dire che è bello parlare di “merito”: purché si parta da presupposti e condizioni – ambientali, economiche, familiari – analoghe; purché si ricordi che il comma 2 dell’art. 3 della Costituzione, “la più bella del Mondo”, prevede che la libertà con cui tutti nasciamo in punta di diritto, di fatto, spesso non è tale, per cui «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Ma non mi soffermerò su nulla di tutto questo. Neppure mi soffermerò sulla da taluni contestata equazione “punizione/caramella”: fai i compiti, ti do la caramella, vai a scuola, ti do il reddito di cittadinanza…
Da vecchio prof di italiano e latino, mi soffermerò, invece, sulla radice etimologica di due parole: umiliazione e stigmatizzazione pubblica.
Chiarito che chi le ha usate ha poi riconosciuto di aver adottato “un termine sicuramente inadeguato”, vorrei ricordare che umiliazione deriva da humus, che vuol dire terra. Quanto al verbo stigmatizzare, esso viene dal greco stigma, termine che indicava il marchio a fuoco che, con ferro rovente, si imprimeva sulla pelle e nella carne degli schiavi fuggitivi. Mi pare una parola ben più forte di quella che ha attirato l’attenzione dei Media e ci sarebbe da chiedersi perché questa sia passata inosservata…
Ma vado oltre.
Ecco, ho speso la mia vita, e ancora la spendo, nella Scuola: chissà quanti sbagli ho fatto e, ahimè, quanti ancora ne farò. Ma non ho mai pensato che il compito di un educatore, questo è innanzitutto un docente, fosse quello di atterrare e marchiare a fuoco un ragazzo: che avesse delle sue motivazioni oppure no.
Di sicuro, non è su queste premesse che si può pensare di riformare la Scuola. Di sicuro, è a fronte di simili premesse che si deve avere il coraggio di esprimere chiaramente il proprio pensiero.
C’è un altro termine di cui vorrei richiamare la radice etimologica: è il verbo indignarsi che, letteralmente, significa non tollerare ciò che offende la dignità; nel nostro caso, quella degli studenti, come quella dei docenti.
E siccome non voglio nascere incendiario e morire pompiere, caro lettore, adorata lettrice, voglio salutarti con una storia che ho vissuto la mattina dello stesso giorno in cui mi è capitato quanto ti sto raccontando.
Mi sono trovato, quasi per caso, in un’aula di scuola primaria, invitato dai compagni di una classe che ha frequentato la quinta elementare nel 1983. Erano lì, qualcuno venuto di proposito addirittura da Roma, per fare una sorpresa al loro Maestro Gino (sì, ha ragione il Sig. Ministro della Pubblica Istruzione, Maestro va scritto con la M maiuscola…) che quel giorno compiva 90 anni.
Mi sono così goduto la Sua e loro commozione, le loro e mie lacrime.
Ho gioito ad ogni loro: “Grazie, Maestro…”.
E poi sono tornato alunno e ascoltato a mia volta le parole del Maestro Gino, tornato di nuovo su una cattedra che in realtà non ha mai lasciato: «Ho commesso di sicuro degli errori, ma posso dire che ho sempre provato a far del mio meglio e che sempre, sempre, vi ho voluto bene e ve ne voglio ancora».
Abbiamo pianto, da capo, tutti insieme.
Piango ora, mentre digito queste parole.
E mi si riaccende il fuoco.
Perché è questo che fa un Maestro: accende fuochi, illumina delle vite, le rende luminose.