
Il libro “Gli Italiani che non conosciamo, Lingue, DNA e percorsi delle comunità storiche minoritarie”, realizzato con il contributo della Direzione generale Educazione, Ricerca e Istituti culturali del Ministero della Cultura, è frutto di un’iniziativa per far conoscere la cultura, la genetica e perfino le tradizioni alimentari di gruppi poco noti, ma che occupano da molto tempo il nostro territorio. L’opera riunisce i frutti di anni di ricerche approfondite condotte da specialisti nell’ambito sia umanistico, sia scientifico. In una sorta di viaggio che attraversa il nostro Paese, linguisti e antropologi raccontano la storia di comunità che hanno conservato culture, lingue e perfino caratteristiche genetiche uniche. Storie che svelano un tesoro nascosto; quanti conoscono, se non per sentito dire, gli Arbëreshë, gli Occitani, i Tabarchini e le tante altre minoranze linguistiche che fin dall’antichità e prima dei flussi migratori recenti, hanno portato nuove lingue, saperi e tradizioni in Italia? A parlarcene sono Giovanni Destro Bisol e Marco Capocasa, rispettivamente docente di Antropologia e Biodiversità umana presso l’Università La Sapienza di Roma, e antropologo e biologo nutrizionista, vice-segretario dell’Istituto Italiano di Antropologia.
Giovanni Destro Bisol e Marco Capocasa, quanto è importante far conoscere la cultura, la genetica e perfino le tradizioni alimentari di gruppi poco noti, ma che occupano da molto tempo il nostro territorio?
I gruppi di cui parliamo, gli Occitani delle Alpi occidentali piuttosto che gli Arbereshe dell’Italia meridionale e insulare giusto per fare due esempi tra tanti (nel libro ne vengono trattate 21!), sono arrivati in Italia ben prima che le migrazioni recenti cambiassero il volto demografico e sociale del nostro Paese. Preservare, trasmettere e salvaguardare il loro patrimonio culturale – storie, lingue e tradizioni che purtroppo gran parte degli Italiani non conosce – significa far comprendere a tutti quanto l’Italia sia unica in Europa per la sua diversità e la sua ricchezza. Diversità e ricchezza basate sulla convivenza, l’incontro e lo scambio, che contribuiscono in modo determinate alla tanto celebrata bellezza del nostro Paese.
Cosa hanno di speciale storiche comunità quali gli Arbëreshë, gli Occitani, i Tabarchini e le tante altre minoranze linguistiche che fin dall’antichità e prima dei flussi migratori recenti, hanno portato nuove lingue, saperi e tradizioni in Italia?
Queste comunità, come le numerose altre presenti sul territorio italiano, sono testimoni di storie millenarie, fatte di migrazioni, scambi culturali e resistenze, ciascuna diversa dall’altra, ma tutte in grado di arricchire il patrimonio culturale italiano. Ecco alcuni brevi esempi.
Gli Arbëreshë, fuggiti dall’Albania sotto la dominazione ottomana, parlano una lingua che conserva elementi dell’albanese antico. La loro religione è cattolica ma segue il rito bizantino, con celebrazioni liturgiche in lingua albanese e una forte devozione alle icone.
Gli Occitani sono giunti in Italia seguendo le vicende politiche della Provenza, la loro è una lingua romanza derivata dal latino volgare. I trovatori, poeti e musicisti occitani, hanno lasciato un’impronta indelebile sulla cultura europea medievale. Le loro canzoni d’amore, le loro satire e le loro ballate sono state tradotte e imitate in tutta Europa.
I Tabarchini, sono arrivati in Sardegna dall’isola di Tabarca in Tunisia in cui si erano stabiliti provenendo dalla Liguria. Il tabarchino è essenzialmente un dialetto ligure con influenze arabe e spagnole. Le tradizioni legate al mare sono profondamente radicate nella cultura tabarchina e la pesca del corallo, un tempo attività principale, ha lasciato un segno indelebile nella loro identità. La cucina tabarchina è un mix di sapori liguri e tunisini, con un’attenzione particolare al pesce fresco.
Come sono interconnesse, a livello sociale e genetico, le identità e le diversità genetiche del nostro Paese?
L’identità è un costrutto dinamico, che si forma e si trasforma nel tempo in risposta a una molteplicità di fattori sociali, culturali e storici. Nelle minoranze storiche questa è fortemente legata alla lingua, alle tradizioni, ai costumi e alla storia di ciascuna comunità. Queste caratteristiche culturali si sono sviluppate nel corso dei secoli, spesso in isolamento geografico o in condizioni di marginalizzazione, e hanno contribuito a forgiare in molti casi un senso di appartenenza unico. La genetica può fornire importanti informazioni sulla storia e sulle origini di queste comunità. Nelle più piccole, come ad esempio i gruppi di lingua germanica delle Alpi orientali, prevale l’effetto della piccola dimensione demografica che ha modificato la struttura genetica sia rispetto ai gruppi originari, sia rispetto a quelli che oggi vivono vicino ad esse. In altre, come in gruppi Arbereshe, si è mantenuto un retaggio genetico della loro storia antica.
Identità e diversità genetica hanno qualcosa in comune: entrambe sono state influenzate dai fattori ambientali, dai processi migratori e dalle interazioni sociali e culturali con altri gruppi. Questo può spiegare alcuni parallelismi che si possono osservare tra loro. Tuttavia, non esiste alcuna relazione diretta: la genetica non può spiegare l’identità culturale o viceversa.
A chi dedicate “Gli Italiani che non conosciamo, Lingue, DNA e percorsi delle comunità storiche minoritarie”?
Ovviamente, a tutte le comunità e le persone che con generosità, e anche spirito critico, hanno partecipato alle ricerche che hanno trovato spazio ne “Gli Italiani che non conosciamo”. A loro abbiamo anche dato voce proprio nel libro, non solo per una forma di rispetto ma anche per stabilire un contatto diretto tra loro e i lettori. Vogliamo ricordare anche due colleghi prematuramente scomparsi, il linguista Fiorenzo Toso, un punto di riferimento per lo studio della diversità linguistica in Italia, e Paolo Anagnostou che ha avuto un ruolo fondamentale nelle nostre indagini genetiche.