Sono passati cinquant’anni dall’incontro epocale tra Muahmmed Alì e George Foreman passato alla storia come Rumble in The Jungle

Partiamo da lui, da Mobutu. Mark Twain diceva che il più crudele dei despoti era stato Leopoldo II. Lo scrittore in realtà si è perso forse le pagine più brutte della malvagità umana e personaggi come Mobutu Sese Seko Kuku Ngbendu Wa Zabanga, semplicemente Mobutu, “il guerriero che va di vittoria in vittoria senza che nessuno possa fermarlo”. Decisamente altisonante e pomposo.

Peccato davvero che nessuno possa fermarlo.

Fa tagliare teste con una facilità sorprendente per la quale impallidirebbe la stessa Regina di Cuori del famoso racconto di Carroll. Ne sa qualcosa Patrice Lumumba, fatto assassinare con il gentile apporto di CIA e mercenari belgi. Ne sanno qualcosa i calciatori della nazionale di calcio che hanno da poco vinto la Coppa d’Africa e che per la prima volta vanno a giocare la Coppa del Mondo in Germania. La spedizione della nazionale dei Leopardi inizia con una sconfitta onorevole contro la Scozia ma la partita contro la Jugoslavia si rivela un incubo. I plavi passeggiano e mettono nella rete dei poveri africani nove reti e si ha la sensazione che possano ancora infierire. Ma non lo fanno. Contro il Brasile gli africani non devono perdere con più di tre gol di scarto per salvare se stessi e le loro famiglie. Mentre Rivellino si accinge a battere, Joseph Mwepu calcia la palla il più lontano possibile, tra l’ilarità del pubblico e lo sbigottimento dei calciatori. Quel gesto salvò la pelle agli africani.

Don King, il quarto in questa trinità, ha problemi ad organizzare in America un evento così grande. L’evento del secolo non può nemmeno essere celebrato nel tempio del pugilato, il Madison Square Garden che tanta disponibilità economica non ha. Si parla di milioni di dollari. E allora si va in Congo, pardon Zaire, perchè intanto Mobutu ha cambiato il nome dello Stato che rimembrava il dominio belga in questa terra.

Mohammed Alì, che è un grande uomo ma anche uno dritto e furbo, appena ha modo glielo ricorda agli abitanti di quella terra che sono stati sotto la colonizzazione e alle dipendenze del re del Belgio e allora arruffiana che il suo rivale è belga. Quelli non perdono tempo a osannarlo e a chiedere la testa di Foreman gridando: «Alì bomaye!».

Alì uccidilo, sarebbe.

Cassius Clay, convertito all’islam con il nome di Muhammed Alì, è il più grande pugile della sua epoca, un’icona del suo tempo.

Ha cominciato a combattere per un oltraggio ricevuto da piccolo quando gli rubarono la bicicletta. Ha vinto tanto, ha perso qualche volta ad esempio contro Frazier, ma per tutti è in assoluto il più grande di sempre, The Greatest.

Arriva al match dopo una lunga squalifica per non aver imbracciato le armi per combattere, in nome del dissenso, in quell’inferno che fu il Vietnam e dopo aver vinto, in una gara in cui non era in palio il titolo,  proprio contro Frazier. É magnetico con le genti, sul ring è elegante e pungente, si muove con la grazia di una farfalla, colpisce con la chirurgia di un’ape. Anche oggi, che non c’è più, la sua vita e il suo esempio fanno ancora rumore, scuote le coscienze ed è capace di unire tutti, anche i suoi avversari. Proprio come avviene con l’altro protagonista della nostra storia in una conversazione sulla fede: George Foreman. L’americano è alto e molto più possente di Alì di cui era un suo fan e che la prima volta che vide lo incontrò gli tremarono le gambe. Alla sfida del 25 settembre ci arriva da campione del mondo in carica dopo aver sconfitto Frazier a Kingston. Abbiamo detto 25 settembre? Esatto, perchè l’incontro del secolo è stato programmato per quella data, ma a causa dell’infortunio occorso a George, la sfida era stata rinviata al 30 ottobre in orario umano per gli americani che potevano seguire comodamente in diretta TV il combattimento, un pò meno per gli spettatori locali e per gli stessi pugili costretti a duellare alle quattro di notte!

Mobutu invece dorme. Probabilmente.

Il suono della campana dà avvio più che a una danza, ad un sabba di colpi terrificanti e mortali. Alì soffre molto la fisicità di Big George che lo mette addirittura alle corde. The Greatest sembra arrancare, lasciarsi sopraffare dai muscoli del suo rivale ma decide di andare ad oltranza con la sua tattica di resistenza. Incassa colpi e trova pure il tempo di punzecchiare il suo rivale: «George, mi deludi, picchi più piano del solito, non mi fai niente».  La svolta arriva all’ottavo round e questa volta ce lo facciamo raccontare dalla penna di Mailer: «Un proiettile delle dimensioni esatte di un guantone da boxe centrò in pieno la mente di Foreman, che cominciò a barcollare, a crollare, a cadere, contro la sua volontà. La sua mente lo tratteneva, come un magnete grosso come il suo titolo, ma il suo corpo cercava il suolo».

Nella rissa nel cuore dell’Africa Alì era stato più forte, il più astuto, il più resistente.

George Foreman ricorda così quell’incontro: «Sono salito sul ring con questo tizio, l’ho ingannato, ho fatto di tutto, l’ho massacrato, e per cinque-sei round credevo fosse facile, poi verso il sesto round, dopo che l’avevo colpito a un fianco, mi ha bisbigliato in un orecchio: “È tutto quello che hai da dare George?”. Ebbene sì, era tutto quello che avevo da dare. Una volta perso quell’incontro ero devastato, non concepivo la sconfitta, lui ne sapeva qualcosa e quindi si era preparato. Aveva delle riserve di energie e di forza, io non avevo niente in mente che potesse proteggermi o farmi da scudo. Perciò sono sprofondato nella devastazione».

Mobutu muore nel 1997.

Alì sarà grande fino agli ultimi giorni della sua vita combattendo il suo peggior nemico: il Parkinson. Resterà nella storia la sua presenza ad Atlanta 1996 come ultimo tedoforo.

Commovente e indimenticabile.

È davvero The Greatest.

George Foreman diventa un pastore e si occupa di salvare anime. Avrà tempo di vincere un altro titolo mondiale alla veneranda età di quarantacinque anni.