Nell’Assemblea Costituente dichiarò: «Alla creazione di quest’Europa, l’Italia deve essere pronta a fare sacrificio di una parte della sua sovranità»

È noto soprattutto per essere stato il secondo Presidente della Repubblica Italiana, il migliore secondo gli storici. Molti altri riconoscono in lui il fine economista liberale, giornalista e padre di un’altra grande figura del novecento italiano: Giulio, fondatore della casa editrice.

Pochi sanno che Luigi Einaudi è stato un europeista prima del tempo oltre che ispiratore del Manifesto di Ventotene, redatto nel 1941 da Ernesto Rossi e Altiero Spinelli.

Le prime idee federaliste negli scritti del futuro Presidente della Repubblica italiana si rintracciano già nei suoi lavori giovanili.

Nel 1897 Einaudi è poco più che ventenne. Lavora come cronista della Stampa di Torino e un avvenimento internazionale cattura la sua attenzione. Durante la guerra dei trenta giorni tra Grecia e Turchia le sei potenze europee intervengono per sostenere la Grecia. Einaudi plaude all’intervento europeo vedendo, in questo aiuto dei popoli europei alla Grecia un mini atto di nascita degli Stati Uniti d’Europa. “In tal modo avvengono le grandi e durevoli creazioni storiche, non secondo i piani prestabiliti dai pensatori, ma per l’attrito fecondo delle opposte forze. Allora gli Stati Uniti europei, adesso avvolti in un’incerta nebbia, avranno acquistato una forma precisa; e la nascita della federazione europea non sarà meno gloriosa solo perché sarà nata dal timore e dalla sfiducia reciproca e non invece dall’ amore fraterno e da ideali umanitari” (Un Sacerdote della stampa e gli Stati Uniti d’Europa, la Stampa 20 agosto 1897).

Sono solo cenni di un giovane pensatore che avrà modo, anni dopo, di far sentire la sua voce sui temi, quali l’europeismo e il federalismo, molto prematuri nelle sue riflessioni a inizio secolo.

Nel 1918 la prima Guerra Mondiale sta per concludersi con la sconfitta pesantissima della Germania, considerata, nel successivo Trattato di Pace di Parigi, unica responsabile del conflitto.

Le potenze vincitrici decidono di creare un’organizzazione intergovernativa chiamata “Società delle Nazioni”, con lo scopo di prevenire i conflitti e garantire la cooperazione economica e sociale. Luigi Einaudi è un professore universitario quarantenne, vicino alle idee socialiste. Non gli piace la Società delle Nazioni, o meglio, non la ritiene idonea alle sfide che attendono il pianeta dopo il conflitto bellico.  Non ha paura di criticare l’organismo appena creato e per farlo, firmandosi Junius, scrive delle lettere al Corriere della Sera indirizzate al direttore Albertini.

Junius cerca di spiegare il dogma della Sovranità dello Stato, un concetto che l’economista Einaudi fa risalire all’Imperatore del Sacro Romano Impero che, in quanto “Signore della guerra” era superiore agli altri principi tedeschi e quindi poteva, in virtù del suo potere sovrano, riscuotere tasse, fare leggi, decidere di pace e guerra. Il dogma della sovranità assoluta, ossia il voler legiferare a proprio piacimento e il non voler dipendere da nessuno implica anche il voler desiderare ampia indipendenza economica, indipendenza che nessun paese dispone poiché non tutte le materie prime sono trovabili nel proprio stato. La sovranità assoluta, secondo Einaudi, è pericolosa in quanto ogni stato cerca uno spazio vitale. La Società delle Nazioni non sottrae sovranità agli stati partecipanti e per questa ragione è a dir poco inutile per prevenire i conflitti.

Junius si rivolge alla Germania e alla sua voglia, non sopita, di dominare gli altri popoli. Il suo è un pensiero profetico: “Il sogno di dominazione dei tedeschi è caduto; ma potrebbe risorgere sott’altra forma, inaspettata e mascherata, ove noi non distruggessimo nei cuori degli uomini le idee ed i sentimenti da cui esso trasse origine” (Il dogma della sovranità e l’idea della Società delle nazioni, Corriere della Sera, 28 dicembre 1918).

La critica di Junius è totale. La Società delle Nazioni servirà a ridurre la sovranità e quindi la voglia di indipendenza economica di alcuni stati? No. Gli stati aderenti alla Società delle Nazioni non hanno rinunciato alla propria sovranità a favore di un organo intergovernativo e questo, inevitabilmente, porterà altre guerre.

Le lettere di Einaudi al Corriere furono pubblicate nel 1920 con il titolo “Lettere politiche di Junius”.

Vent’anni dopo quel prezioso volumetto finirà tra le mani di un suo ex studente universitario, oppositore al fascismo e confinato all’isola di Ventotene. Ernesto Rossi riconosce l’autore delle lettere di Junius e chiede che gli vengano recapitati altri libri che parlino di federalismo. Tre anni dopo il “Manifesto di Ventotene” inizia a diffondersi clandestinamente tra gli intellettuali europei. Scritto da tre confinati di diverso orientamento politico, è il documento fondante del pensiero europeista in Europa. Dobbiamo credere che finì presto tra le mani di Einaudi dato che l’economista ricordava i tre in un suo intervento: “Oggi, vi è in Italia un gruppo di giovani, temprati alla dura scuola della galera e del confino nelle isole, il quale è deliberato a mettere il problema della federazione in testa a tutti quelli i quali debbono essere discussi nel nostro paese. Non senza viva commozione ricevetti, durante i lunghi trascorsi anni oscuri, una lettera scrittami dal carcere da Ernesto Rossi, nella quale mi si ricordava l’antica lettera e mi si diceva il suo deliberato proposito di volere operare per tradurre in realtà l’idea federalistica” (Contro il mito dello Stato sovrano, Risorgimento liberale, 3 gennaio 1945).

Mettere in pratica le speranze di Unità per un’Europa, nel frattempo, sconvolta dalle bombe. La Società delle Nazioni fallìsce miseramente. Come predetto da Einaudi, la Germania continuava a cercare il suo spazio vitale. Il dogma della sovranità assoluta del Fuhrer tedesco Adolf Hitler causò la seconda guerra mondiale.

Esplicita la critica di Einaudi torna alla Società delle Nazioni: “L’idea della società delle nazioni è infeconda e distruttiva? Essa è fondata sul principio dello stato “sovrano”. Questo è oggi il nemico numero uno della civiltà umana, il fomentatore pericoloso dei nazionalismi e delle conquiste. Il concetto dello stato sovrano, dello stato che, entro i suoi limiti territoriali, può fare leggi, senza badare a quel che accade fuor di quei limiti, è oggi anacronistico ed è falso. […] Invece di una società di stati sovrani, dobbiamo mirare all’ideale di una vera federazione di popoli, costituita come gli Stati Uniti d’America o la Confederazione elvetica. Gli organi supremi, parlamento e governo, della confederazione non possono essere scelti dai singoli stati sovrani ma debbono essere eletti dai cittadini della confederazione. Esercito unico e confine doganale unico sono le caratteristiche fondamentali del sistema. Gli stati restano sovrani per tutte le materie che non siano delegate espressamente alla federazione; ma questa sola dispone delle forze armate, ed entro i suoi confini vi è una cittadinanza unica ed il commercio è pienamente libero. Fermiamoci a questi punti che sono gli essenziali e da cui si deducono altre numerose norme. Entro i limiti della federazione la guerra diventa un assurdo, come sono divenute da secoli un assurdo le guerre private, le faide di comune e sono represse dalla polizia ordinaria le vendette, gli omicidi ed i latrocini privati. La guerra non scomparirà, ma sarà spinta lontano, ai limiti della federazione (Contro il mito dello stato sovrano).

Terminata la guerra, da più parti è sentita l’esigenza di intraprendere la svolta federale auspicata da Einaudi e da altri protagonisti dell’era post bellica.

Luigi Einaudi è uno di questi protagonisti, uno dei nomi di maggior peso nei primi anni di Italia repubblicana.

È eletto all’Assemblea Costituente tra le file del Partito “Unione Democratica Nazionale”, una formazione di ispirazione liberale. È tra i redattori della Costituzione repubblicana prima di essere eletto, nel 1948, Presidente della Repubblica, il secondo dopo Enrico De Nicola. Sarà un settennato straordinario. Durante quegli anni l’Italia ricomincerà a riacquistare fiducia, cerca di tornare tra le grandi del mondo, si ricostruiscono le città e si pongono le basi per il boom economico. Nel 1951 vede la luce il primo nucleo di Comunità Europea, la Ceca. Einaudi continuava a pensarci molto prima di salire al Quirinale.

Nel 1947, dinnanzi alla Camera dei Deputati, in merito alla firma del Trattato di Pace, Einaudi interviene in aula da vicepresidente del consiglio. Il suo è un discorso meraviglioso, parla di fede, di guerra e di libertà. Soprattutto, è un discorso europeista, di speranza per un Europa finalmente pacifica.

“La prima guerra mondiale fu dunque combattuta invano, perché non risolse il problema europeo. Ed un problema europeo esisteva. Scrivevo nel 1917 e ripeto ora a trenta anni di distanza: gli stati europei sono divenuti un anacronismo storico. […] la prima guerra mondiale fu la manifestazione cruenta dell’aspirazione istintiva dell’Europa verso la sua unificazione; ma, poiché l’unità europea non si poteva ottenere attraverso una impotente Società delle nazioni, il problema si ripropose subito. […] Questa volta Satana si chiamò Hitler, l’Attila moderno. Non val la pena di parlare del nostro dittatore di cartapesta, il quale non comprese mai la grandezza del problema.[…] All’Attila redivivo il metodo della forza non riuscì; ché gli europei erano troppo amanti di libertà per non tentare ogni via per resistere al brutale dominio della forza; e troppi popoli al mondo discendono dagli europei e serbano il medesimo ideale cristiano del libero perfezionamento individuale e dell’elevazione autonoma di ogni uomo verso Dio per non sentire nell’animo profondo l’orrore verso chi alzava il grido inumano dell’ossequio verso ideali bestiali di razza, di sangue, di dominazione degli uomini eletti venuti dalla terra generatrice di esseri autoctoni e dalla foresta primitiva. […] Non basta predicare gli Stati Uniti di Europa ed indire congressi di parlamentari. Quel che importa è che i parlamenti di questi minuscoli stati i quali compongono la divisa Europa, rinuncino ad una parte della loro sovranità a pro di un Parlamento nel quale siano rappresentati, in una camera elettiva, direttamente i popoli europei nella loro unità, senza distinzione fra stato e stato ed in proporzione al numero degli abitanti e nella camera degli stati siano rappresentati, a parità di numero, i singoli stati. Questo è l’unico ideale per cui valga la pena di lavorare; l’unico ideale capace a salvare la vera indipendenza dei popoli, la quale non consiste nelle armi, nelle barriere doganali, nella limitazione dei sistemi ferroviari. […] La sola via d’azione che si apre dinnanzi è la predicazione della buona novella. Quale sia questa buona novella sappiamo: è l’idea di libertà contro l’intolleranza, della cooperazione contro la forza bruta. L’Europa che l’Italia auspica, per la cui attuazione essa deve lottare, non è un’Europa chiusa contro nessuno, è una Europa aperta a tutti, un’Europa nella quale gli uomini possano liberamente far valere i loro contrastanti ideali e nella quale le maggioranze rispettino le minoranze e ne promuovano esse medesime i fini, sino all’estremo limite in cui essi sono compatibili con la persistenza dell’intera comunità. Alla creazione di quest’Europa, l’Italia deve essere pronta a fare sacrificio di una parte della sua sovranità. (Discorso alla Costituente, 29 luglio 1947)

L’unificazione europea, a 70 anni di distanza da quel discorso di Einaudi, è stata fatta. Pur se criticata e da alcuni rinnegata, ha assolto al compito sperato dal presidente liberale, ovvero un Europa trionfatrice negli ideali di solidarietà, pace e soprattutto difesa di popoli e uomini liberi.