“Diamo sempre;
diamo un sorriso, una comprensione, un perdono, un ascolto;
diamo la nostra intelligenza, la nostra volontà.
Dare: sia questa la parola che non può darci tregua”.
(Chiara Lubich)
Il tema che ci proponiamo di mettere in luce è quello dell’economia, una economia diversa da quella che si vede in giro, ma tuttavia presente in diverse parti del mondo. Si chiama “economia di comunione”.
Qualcuno potrebbe obiettare: non è bene mettere insieme due parole che possono essere considerate antitetiche e provenienti da due campi semantici differenti: la prima dal mondo profano e la seconda dal mondo religioso.
Eppure queste due parole, seppur distanti, possono avvicinarsi e in qualche modo toccarsi.
L’Economia di Comunione (EdC), fondata da Chiara Lubich nel maggio 1991 a San Paolo, coinvolge imprenditori, lavoratori, dirigenti, consumatori, risparmiatori, cittadini, studiosi, operatori economici, tutti impegnati ai vari livelli a promuovere una prassi ed una cultura economica improntata alla comunione, alla gratuità ed alla reciprocità, proponendo e vivendo uno stile di vita alternativo a quello dominante nel sistema capitalistico.
L’idea che il mercato sia un mezzo e un’espressione di civiltà non è comune nel nostro tempo. In genere prevale il pensiero opposto, e cioè che il mercato sia essenzialmente uno strumento di sfruttamento dei forti sui deboli, un luogo di oppressioni dei più poveri. In realtà, anche se nei mercati e attraverso le imprese e le banche tutti i giorni accadono cose pessime, fino a vendere il «povero per un paio di sandali», comunque anche l’economia può dare un grande contributo a chi tende la sua mano per chiedere un aiuto.
È anche possibile leggere il nostro mondo come la somma di tanti egoismi. Ma non è meno vero, leggere il mosaico di relazioni che si compone ogni giorno come la più grande cooperazione che la storia umana abbia inventato. Anche questo è il mercato. Soprattutto questo è il mercato.
Se parliamo di comunione non possiamo non fare riferimento a Colui che è la “Comunione in persona”, cioè Gesù, il quale con il suo “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” ha sottolineato l’importanza dell’economia, l’importanza della ricchezza.
Gesù, infatti, non rigettava la ricchezza, ma la sua assolutizzazione. Gesù rigettava la ricchezza, quando questa aveva la pretesa di essere la salvezza.
In altri termini, la ricchezza diviene pericolosa quando da mezzo diviene il fine.
Un grande teologo del nostro tempo, Gianfranco Ravasi, offre parole molto forti per la riflessione a riguardo: “Interrogarsi sulla economia non significa assolutamente interrogarsi solo sulla finanza, che è uno strumento, e purtroppo oggi assistiamo a una bulimia degli strumenti e a una anoressia dei fini”.
L’economia di comunione, allora, vorrebbe far emergere la cultura del dare, la cultura che contraddistingue il cristianesimo, perché “vi è più gioia nel dare che nel ricevere”.
L’economia di comunione, se vuole essere fedele al suo carisma, non deve soltanto curare le vittime, ma costruire un sistema dove le vittime siano sempre di meno, dove possibilmente esse non ci siano più. Finché l’economia produrrà ancora una vittima e ci sarà una sola persona scartata, la comunione non è ancora realizzata, la festa della fraternità universale non è piena.
Bisogna allora puntare a cambiare le regole del gioco del sistema economico-sociale. Imitare il buon samaritano del Vangelo non è sufficiente. Certo, quando l’imprenditore o una qualsiasi persona si imbatte in una vittima, è chiamato a prendersene cura, e magari, come il buon samaritano, associare anche il mercato (l’albergatore) alla sua azione di fraternità. Ma occorre agire soprattutto prima che l’uomo si imbatta nei briganti, combattendo le strutture di peccato che producono briganti e vittime. Un imprenditore che è solo buon samaritano fa metà del suo dovere: cura le vittime di oggi, ma non riduce quelle di domani. Per la comunione occorre che un imprenditore di comunione è chiamato a fare di tutto perché anche quelli che sbagliano e lasciano la sua casa – come nella parabole del Figlio prodigo – possano sperare in un lavoro e in un reddito dignitoso, e non ritrovarsi a mangiare con i porci. Nessun figlio, nessun uomo, neanche il più ribelle, merita le ghiande.
E vorrei concludere con le parole che ha pronunciato Papa Francesco incontrando proprio coloro che mettono in atto tale economia sui generis: “Ecco l’economia e la comunione. Due parole che la cultura attuale tiene ben separate e spesso considera opposte, ma che voi avete unito. L’imprenditore diviene agente di comunione. Nell’immettere dentro l’economia il germe buono della comunione, si dà inizio un profondo cambiamento nel modo di vedere e vivere l’impresa. L’impresa non solo può non distruggere la comunione tra le persone, ma può edificarla, può promuoverla. Solo così economia e comunione diventano più belle quando sono una accanto all’altra. Più bella l’economia, certamente, ma più bella anche la comunione, perché la comunione spirituale dei cuori è ancora più piena quando diventa comunione di beni, di talenti, di profitti”.