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Il testamento autobiografico di Sorrentino
È stata la mano di Dio, o forse, quella di Maradona, chissà, magari di tutti e due. Già, perché Dio e Maradona sono una cosa sola, perché Maradona è Dio, almeno per la famiglia Schisa, almeno per tutta Napoli. Il titolo, che probabilmente non sarebbe stato questo in epoca VAR, richiama il gol di Diego contro l’Inghilterra, quel pugno al pallone e allo stomaco dei dominatori reali, la vendetta contro i colonizzatori delle Malvinas.
Una città intera che tifa Argentina per soverchiare il potere (come sostiene Renato Carpentieri), ta ta ta ta, la telecronaca onomatopeica di Victor Hugo Morales fa il paio con il tufff con cui Fabietto scherza con il suo amico contrabbandiere, la mala compagnia, la distrazione che Fabietto utilizza per dimenticare la morte dei suoi genitori, addormentatisi asfissiati nella casa di Roccaraso, mentre Fabio era ad Empoli per seguire il Pibe de Oro.
Un senso di colpa mai sopito, l’ispirazione che, grazie al regista Capuano, lo porterà a brandire una macchina da presa per ghermire un futuro che la Baronessa del piano di sopra gli spalanca dandogli la sua vagina, la sua prima volta, quella che secondo papà Saverio (del pretoriano ed eccelso Toni Servillo) avrebbe dovuto consumare con un cesso qualsiasi.
Fabietto (all’esordiente Filippo Scotti il Premio Marcello Mastroianni) voluttuoso e desideroso di sua zia Patrizia (Luisa Ranieri), conturbante e burrosa anima in pena, mente instabile e sognatrice, figlia dell’impossibile Monaciello, fertile preda di Massimo Gallo.
“È stata la mano di Dio” (su Netflix dal prossimo 15 dicembre) è il testamento autobiografico di Paolo Sorrentino, un dono presentato alla 78ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e insignito del Leone d’Argento, l’atto notarile che rappresenterà l’Italia agli Oscar 2022, la coscienza che “non si inganna il proprio fallimento”, la consapevolezza che per noi si vada nell’eterno dolore di un dramma classico, la tragedia greca che non risparmia nessuno, comunisti di vita, quelli, per intenderci, che si rifiutano di cambiare canale attraverso un telecomando, preferendo una lunga mazza da tirare per far ritornare amore, il fischio che neppure Alessandro Alessandroni avrebbe enfatizzato meglio, lo scherzo che mamma Maria (Teresa Saponangelo) non lesinava a nessuno, la promessa che il San Gennaro Enzo Decaro non ha mantenuto per molti dei suoi compaesani.
Sullo sfondo di questa poetica pellicola, una gioia non solo nascosta ma, persino, fastidiosa, uno scudetto conseguenza di fideiussioni, debiti con il Banco di Napoli e col Destino, un treno verso il domani, il cinema per sfuggire all’amarezza della realtà:
Napule è tutto nu suonno
E a’ sape tutto o’ munno
Ma nun sanno a’ verità