
Mi chiedo – e lo chiedo qualche volta anche ai colleghi insegnanti -: è utile insegnare Pirandello agli adolescenti? Non sarebbero preferibili autori più positivi e propositivi, per esempio autori che raccontano la scoperta della propria autenticità e la ricerca del proprio cammino?
Il tema cruciale nella concezione del mondo di Pirandello è senz’altro quello dell’identità dell’essere umano. Riassumendo, secondo Pirandello l’essere umano ha centomila identità, eppure è uno, in fin dei conti è nessuno. L’essere umano è una cosa per sé, tutt’altro agli occhi della società. L’essere umano è ignoto a se stesso.
Si tratta di opinioni antiche, comuni a varie tradizioni di pensiero. Pirandello vive e racconta questi problemi più che nei termini di una ricerca, in quelli di una crisi, di una denuncia, di appello, di tragica mancanza di soluzione.
Mi chiedo (e lo chiedo qualche volta anche ai colleghi insegnanti): è utile insegnare Pirandello agli adolescenti? È utile che gli adolescenti leggano Pirandello? È utile che il problema dell’identità pirandellianamente intesa sia posto a chi è in fase di costruzione della propria identità? Se sì, in che termini? Oppure è meglio evitare di farlo?
Anticipando la mia risposta dirò che è utile farlo solo nella misura in cui è un’occasione per una definizione ed una risposta positiva e propositiva al problema dell’identità. La costituzione dell’identità individuale sembra avere due facce: da una parte è sostanzialmente un processo artificiale e motivato dalla nostra collocazione, inevitabile, nella società; assumiamo ruoli, indossiamo maschere, rivestiamo ruoli diversi a secondo dell’altro che abbiamo di fronte.
Dall’altro è un processo autentico nel senso letterale del termine, cioè motivato dal di dentro. Con Pirandello, o, perlomeno, con la vulgata di Pirandello, non scevra da semplificazioni, si rischia di prospettare al lettore e allo spettatore adolescente la demolizione di ciò che deve essere ancora compiutamente costruito. Sembra un autore per adulti che riflettono criticamente, non per adolescenti alla ricerca di senso.
È ovvio che la mia posizione potrebbe apparire paternalistica o censoria, ma non è questa la mia intenzione. Penso piuttosto al senso morale delle scritture, come teorizzato già nel Medioevo: siamo noi a dover estrarre dai testi un senso morale e questo chiama in causa la nostra maturità, la nostra responsabilità. È ragionevole chiedere questo ad un adolescente?
Da un altro punto di vista, il negativismo pirandelliano può essere un’occasione per una definizione positiva e propositiva dell’identità. Sostanzialmente, sembra che il problema dell’identità sorga nel momento stesso in cui ci chiediamo “Io chi sono?” , come se definire il proprio io equivalesse a trovare il proprio vero essere. È una domanda mal posta. Come diceva Franz Kafka “Il Messia verrà quando non ce ne sarà più bisogno”, cioè quando non avremo più bisogno di un Messia, perché saremo già salvi autonomamente.
Il quesito “Qual è il mio vero io?” sembra non trovare una risposta univoca. Non c’è un “io” che abbia le caratteristiche di permanenza, stabilità, assolutezza che vorremmo attribuirgli. In inglese si usa il termine “self”, che non indica un “io”, ma qualcosa di più profondo, di passivo, la parte di noi che sente la vita, più che la maschera, la personalità rivolta verso l’esterno ed il mondo. Per definizione, l’io, freudianamente inteso, in quanto elemento di mediazione interiore e nel rapporto col mondo, non può che avere caratteristiche di molteplicità, variabilità, instabilità.
Lasciamo la questione agli specialisti di psicologia: a noi interessa invece la valenza pedagogica ed umana del problema dell’identità come posto da Pirandello. A noi interessa passare dalla domanda di identità e sull’identità alla domanda di autenticità.
Il motto “Amate quod eritis” in termini agostiniani equivale alla volontà di crescere, di diventare, di evolversi in una direzione amando quella direzione, laddove “amare” equivale a “volere che esista” “volere che accada” “volere che si realizzi” un’identità, ovviamente un’identità autentica, così autentica da essere da noi amata già nella sua fase di costruzione. La giovinezza è il tempo in cui si scopre, faticosamente, come si è; è il tempo dell’esplorazione, a volte anche caotica e dolorosa, delle proprie possibilità.
Torno allora alla domanda iniziale: non è frustrante Pirandello in questo contesto?
Non sarebbero preferibili autori più positivi e propositivi, per esempio Autori che raccontano la scoperta della propria autenticità e la ricerca del proprio cammino? Cercare un io, un’identità significa inevitabilmente attribuire un senso in qualche modo assoluto a qualcosa che è invece relativo e socialmente, artificiosamente costruito. Cercare l’autenticità significa, invece, cercare qualcosa che ci faccia sentire uniti alla più profonda motivazione ad esistere di cui siamo capaci, qualcosa che ha a che fare con la natura, con il ciclo naturale della vita, che è fatto di nascita, crescita e morte, con i sogni, con la condizione umana.
Pirandello ed altri autori del XX secolo hanno espresso il timore che, in fondo alla ricerca di senso, ci sia il nulla. Questa opzione nichilistica scompare di fronte alla rivelazione dell’autenticità e della indubbia concretezza del nostro mutevole, ma vivo essere nel mondo: noi nasciamo, cresciamo e questo non può essere “nulla”. Apparteniamo ad un mondo in continuo fermento ed evoluzione e dobbiamo e possiamo essere solidali ed in tono con questo mondo: tutto questo non è “nulla”, non può essere “nulla”. Noi sentiamo e questo non può essere “nulla”.
Peraltro, la visione tragica, nichilistica dell’identità umana di Pirandello deve senz’altro essere storicizzata: essa è una reazione di altissimo valore e spessore ad una condizione storica in cui vigeva una definizione schematica, monolitica, estremamente conformistica e formalistica dell’identità umana, specialmente maschile. Oggi, in una società aperta e democratica, il problema sta piuttosto in una ricerca di autenticità e di soddisfazione interiore che richiede necessariamente una definizione di identità libera, concreta, attiva.
Anche la paura che il relativismo suscita in Pirandello, lo smarrimento, deve inoltre essere considerato alla luce della teorizzazione di assoluti che era stata tipica della cultura ottocentesca: oggi questo scenario non esiste più e la relatività/molteplicità in ogni campo è imprescindibile, come ha ben dimostrato Italo Calvino in una delle sue “Lezioni americane”.
Al monito di Pirandello che ci ricorda, giustamente, che siamo sì uno, ma anche centomila, hanno risposto tanti filosofi ed artisti contemporanei invitando ad una definizione ironica della nostra identità sociale, sapendo che siamo e non siamo la maschera che comunque necessariamente indossiamo.
Non va peraltro trascurato il significato dell’adesione di Pirandello al Manifesto degli intellettuali fascisti, che appare una sorta di rifugio proprio sotto le ali di chi ostentava la più marmorea delle identità. Quindi un rifugio dall’orrore del vuoto identitario. Ed appunto la crisi dell’identità enunciata da Pirandello è certamente il cuore della crisi dell’Occidente ed ebbe certamente a che fare, in quanto atteggiamento diffuso, con la nascita dei totalitarismi.
A questa crisi oggi va data una risposta positiva, che passa certamente da una ridefinizione dell’identità tale da non allontanarci dal mondo, ma piuttosto capace di spingerci ad agire nel mondo, ad impegnarci.
In questo contesto mi pare prezioso il contributo positivo che viene da molte parti. Fra questi vorrei citare Hannah Arendt per almeno due dubbi costruttivi che introduce nell’orizzonte nichilistico. Il primo sta nell’altissimo valore che assegna all’azione politica, in quanto momento più alto e significativo della vita umana, la vita pubblica che si oppone alla vita privata, che è “privata” proprio perché è un impoverimento rispetto all’opera che l’essere umano compie nella vita sociale.
In secondo luogo perché, sulla scia degli studi sul biologo Portmann, H. Arendt ha capovolto l’interpretazione negativa della mutevolezza del nostro apparire nel mondo. Secondo Portmann e Arendt, l’apparenza, l’essere come siamo, la varietà, sono l’espressione più alta della vita. Gli esseri viventi sono irripetibilmente diversi l’uno dall’altro e questo è parte della nostra autenticità.
Tornando perciò alla domanda iniziale, ovvero se e come deve essere letto Pirandello dagli adolescenti, direi prima di tutto che devono esservi cautele critiche e scientifiche nell’approccio a Pirandello ed ai pirandellismi. In secondo luogo, così come Francesco De Sanctis creò il canone degli Autori (e con esso il Mito) per l’Italia post-unitaria, così noi oggi siamo alla ricerca (entusiasmante) di un rinnovato canone di Autori (e di un nuovo Mito) per il XXI secolo .
Perché studiamo tanto Pirandello e tutta la tradizione negativistica novecentesca e dimentichiamo ormai, ad esempio, Garibaldi, Mazzini, Gobetti, Gramsci, don Milani e con essi tanti intellettuali e scrittori, italiani e non, che spronano a vivere, a lottare, a costruire?
A chi giova?
Ritengo che l’utilità e l’opportunità della lettura di autori che, di primo acchito, potrebbero non configurarsi con il profilo formativo ed educativo degli adolescenti si sposi con la realtà che oggigiorno essi stessi vivono. L’ uno, il nessuno ed i centomila siamo noi adulti che li cresciamo. In sintesi: se già loro vivono come esperienze giornaliere le distonie della famiglia e della società cosa possono aggiungere di dannoso tali letture? Un po’… tipo: della serie “se lo conosci lo puoi risolvere”
A questo punto stronchiamo i problemi alla radice e insegniamo ai 18enni a trarre solo le cose belle della letteratura. Le cose brutte, invece, le scopriranno da soli nelle loro strada. Buttiamo via Epicuro, gli stoici, l’inferno di Dante, le tragedie di Shakespeare (che insegna che l’amore uccide?), la rassegnazione di Verga e le riflessioni esistenziali di Leopardi.
Ho compreso che Lei cerca un approccio più positivo alla concezione Pirandelliana della molteplicità delle maschere o degli esseri che abitano i nostri corpi, ma nella realtà spesso non è così. La nostra non è solo una varietà che rappresenta “l’espressione più alta della vita”, ma è anche ipocrisia, finzione, adattamento forzato a costrutti sociali. E questo i diciottenni lo devono sapere, anche se molto spesso lo hanno già scoperto da soli, ancor prima di leggere Pirandello.
Mi soffermerei sulla necessità di creare un nuovo canone degli Autori, adatto al 21° secolo. Pirandello (e con lui tanto negativismo novecentesco) era percepibile in modo ben diverso nel 20° secolo: leggerlo era sinonimo di libertà intellettuale, di spirito critico, di profondità intellettuale. Oggi, in un pianeta che corre verso l’autodistruzione fisica e spirituale, il negativismo pirandelliano si presta ad una ricezione del tutto diversa e rischia di indebolire il debole. Ho posto questa domanda: a che serve indebolire il senso dell’identità in chi sta faticosamente cercando di costruirla?
Purtroppo è difficile trasmettere la sensazione di chi, come me, partecipa alle Commissioni degli esami di stato e si vede arrivare adolescenti sempre più acerbi e infantili che si devono sorbire in forma banalizzata lo stream of consciousness di Virginia Woolf, il pessimismo leopardiano, il nichilismo montaliano, suicidi, depressioni, crisi di identità e via dicendo. Nell’articolo accenno alla necessità della creazione di un nuovo Mito, che non è nè può essere l’orizzonte novecentesco. Ci vuole una mentalità diversa per un nuovo Mito collettivo; e ci vogliono autori diversi o, se preferite, un diverso modo di leggere gli autori.
Seppur concordo nel pensare che lo studio di Pirandello sia destabilizzante per un adolescente (ricordo che per me è stato così), credo però che costituisca anche un momento di crescita, di fase transitoria verso la cruda conoscenza del mondo adulto, seppur in maniera un po’ brusca, e ricerca della propria identità. Non a caso è uno degli autori preferiti dei ragazzi.