Tutti gli errori (o quasi) del Sommo Poeta che nessuno (o quasi) vi ha detto mai…

Sono conscio del fatto che nell’articolo che mi appresto a scrivere, ci sono almeno due anomalie. La prima è meramente personale, visto che per una volta esco dal mio campo, cioè la Cina, ma non credo che questo sia un problema, non vorrei che i lettori pensassero che mi interessino soltanto le vicende cinesi. La seconda e ben più grave singolarità è che scriverò su Dante, ma non per lodare lui e la Divina Commedia come giustamente fanno tutti, soprattutto ultimamente, visto che quest’anno ricorre il settecentesimo anniversario della morte del Sommo Poeta, ma per metterne in evidenza gli errori e le contraddizioni, praticamente per dissacrarlo, ma non lo faccio certo per denigrarlo. Bisogna dire molti degli elogi che sono stati scritti su Dante e la Commedia sono piuttosto melensi, privi di spirito critico, secondo una prassi consolidata che non prevede zone d’ombra nell’apologia di un personaggio storico o di un artista, come se queste sminuissero il valore di un autore o delle sue opere.

Se quindi anche per voi quella di Dante è una figura divina quanto la Commedia, da lodare senza se e senza ma, allora forse è meglio che vi fermiate qui, non vorrei farvi arrabbiare. Per gli altri invece, preciso subito che non sono certo il primo a rilevare questi errori o imprecisioni presenti nella Divina Commedia, mentre i veri appassionati dell’opera, che l’hanno letta in modo approfondito e non superficialmente, non troveranno niente di nuovo in ciò che stanno per leggere, io ho solo provato a raccogliere alcune delle “stranezze” dell’opera e ad analizzarle e a interpretarle, preferendo (senza avere la presunzione di paragonarmi a loro) un approccio alla Prof. Barbero piuttosto che alla Benigni.

Inizio logicamente dall’Antinferno, dove si trovano le anime degli ignavi, quelli che vissero “sanza ‘nfamia e sanza lodo”, tra cui il Sommo Poeta inserisce anche gli angeli che non si schierarono né con Dio né con Lucifero, durante la ribellione di quest’ultimo (Inferno, canto III). Più che un errore, questa degli angeli ignavi può essere vista come un’invenzione di Dante, visto che non trova riscontri né nelle sacre scritture, né nella patristica (la filosofia cristiana dei primi secoli). Oltretutto, non mi sembra logico che anche gli angeli possano subire delle pene corporali (essere punti in continuazione da vespe e mosconi, inseguendo un vessillo appena visibile in lontananza), visto che si dovrebbe trattare di entità spirituali, eteree e immortali, non di esseri carnali, quindi c’è da ipotizzare che la loro principale punizione sia stata quella di essere trasformati in esseri dotati di carne, lacrime e sangue.

A proposito di carnalità, nel canto XII Dante viene riconosciuto come vivente dai dannati perché sposta le pietre con i suoi piedi, mentre nel canto XXIII le anime capiscono che egli è vivo in quanto muove la gola, tutte cose che non fanno le anime dei morti, che a quanto pare mantengono la propria carnalità solo nelle sofferenze, quando vengono torturate, scuoiate, squartate, e urlano, versano lacrime e sangue. Dante fornirà una spiegazione di ciò nel Purgatorio, per bocca di Virgilio e Stazio (parlerò di lui più tardi), attraverso la dottrina del “corpo aereo”, cioè il corpo che riveste le anime facendo loro percepire la fame e la sete, il freddo e il caldo, le sofferenze fisiche e quelle dell’anima in attesa del Giudizio Universale.

Questo corpo aereo però non ha ombra, non respira, ed è inconsistente, cioè non può essere toccato e non smuove gli oggetti cui va incontro, ma allora non si spiega come Brunetto Latini (bell’atto d’ingratitudine mettere il proprio maestro all’Inferno, ma a quanto pare Dante conosceva bene le “perversioni” di Ser Brunetto) nel canto XV dell’Inferno riesca a tirargli la veste con la mano. Per non parlare poi del fatto che questo corpo aereo renderebbe pressoché inutile la resurrezione dei corpi terreni, ma forse è come dice Virgilio, gli uomini non devono conoscere i motivi più profondi dell’operato della virtù divina, ma devono limitarsi ad accettarne l’inspiegabilità e ad accontentarsi della conoscenza dell’esistenza della cosa, e non del suo perché (Purgatorio XXII).

Altri errori di Dante contenuti nell’Inferno, sono più frutto del suo tempo che suoi personali, come lo screditare Federico II con la falsa credenza delle cappe di piombo che l’imperatore svevo faceva indossare ai colpevoli di lesa maestà (canto XXIII, calunnia messa in giro dal partito filopapista dei Guelfi, a cui l’Alighieri apparteneva), o l’invettiva contro la donazione di Costantino (XIX), che solo in seguito sarebbe stata appurata come un falso utilizzato dalla Chiesa per avvalorare i propri diritti sui suoi territori in Occidente, o il ritenere che nell’Emisfero Australe non vi fossero terre emerse, se non l’isola del Purgatorio. C’è da dire però che la sua descrizione dei due emisferi, seppur imprecisa, ci aiuta a smontare la tesi errata di chi afferma che ancora ai tempi di Galileo si pensava che la Terra fosse piatta, e che la Chiesa condannasse chi lo negava, mentre Dante con la sua opera ci fa capire chiaramente che già nel tredicesimo secolo si sapeva che la Terra era sferica.

Una cosa su cui personalmente non sono d’accordo col Sommo Poeta, è l’aver messo il profeta Maometto nella nona bolgia tra i seminatori di discordia (XXVIII). Lo trovo ingiusto perché, se proprio doveva metterlo all’Inferno, avrebbe potuto inserirlo nel sesto cerchio, tra gli eretici; Maometto non seminò discordia nel fondare l’Islam, anzi unì tutte le tribù arabe sotto la sua guida, fino a creare un impero. Non penso di sbagliarmi nell’affermare che probabilmente Gesù creò molta più discordia, sia in Patria che a Roma, con le sue predicazioni di quanto abbia fatto Maometto secoli dopo, anche se ovviamente è questione di punti di vista. Inoltre, penso che Dante sia stato anche ingrato nei suoi confronti, visto che è probabile che nella stesura della Divina Commedia, si sia ispirato anche al Kitab al-Miraj, il libro della Scala, che narra del viaggio in una notte da Medina a Gerusalemme, con successiva ascensione al cielo e discesa agli inferi compiuto dal Profeta accompagnato dall’Arcangelo Gabriele (sostituito da Dante con Virgilio e Beatrice) e in groppa a Buraq, quadrupede alato con volto umano e coda di pavone, che ricorda molto Gerione (Inferno XVII), su cui montano Dante e Virgilio per volare dal settimo cerchio alle Malebolge.

Passando al Purgatorio, la prima contraddizione si ha nella figura di Catone l’Uticense, posto addirittura a guardia dell’accesso al luogo dove le anime si mondano per poter accedere al Paradiso. Catone non ha mai creduto in Dio e in Cristo (né avrebbe potuto, essendo morto prima della sua nascita), dovrebbe trovarsi nel Limbo come Virgilio. Se poi calcoliamo che morì suicida, il luogo più adatto a lui forse sarebbe stato il secondo girone del settimo cerchio, con l’anima intrappolata in un albero secco, insieme a Pier delle Vigne (Inferno XIII).

La spiegazione che dà Dante è che il suo fu un gesto giustificabile se non degno di ammirazione, visto che lo compì per preservare la sua integrità morale, assurgendo così a simbolo di libertà che non scende a compromessi con il potere. Ora però, per quanto nel tredicesimo e quattordicesimo secolo la figura di Catone fosse ben vista per il suo stoicismo, la sua moralità e il suo rifiuto dei beni terreni, ciò è ancora in contrasto con il pensiero espresso precedentemente da Dante per almeno due motivi: anche Pier delle Vigne si suicidò in seguito a una falsa accusa e per sfuggire a un ingiusto castigo, ma per il poeta fiorentino questa fu una doppia colpa, perché non solo commise suicidio, ma così facendo uccise anche un innocente.

Inoltre, Catone si tolse la vita per sfuggire a Cesare, uomo profondamente ammirato da Dante, che nel canto XXXIV assegna la più terribile delle punizioni ai suoi assassini Bruto e Cassio, cioè essere masticati da due delle tre bocche di Lucifero (l’altra, quella centrale, è riservata a Giuda), in linea col pensiero dell’Alighieri, secondo cui il mondo doveva essere regolato da due poteri, quello temporale dell’Imperatore e quello spirituale della Chiesa (vedasi anche il piede di ferro e il piede d’argilla del Veglio di Creta, Inferno XIV), e a chi agisce contro “i benefattori”, spetta la punizione massima. Per questi motivi, la scelta di Dante è poco comprensibile, e anche in questo caso un po’ ingrata nei confronti di colui che ha scelto come guida, e cioè Virgilio, a cui invece è negata la salvezza eterna.

Sempre nel Purgatorio, troviamo un’altra anima che non dovrebbe trovarsi lì, cioè quella di Stazio (XXI). Qui scopriamo che il poeta napoletano vissuto nel I sec. d.C., prima di morire diventò cristiano, grazie all’illuminazione ricevuta durante la lettura dell’Eneide e delle Bucoliche di Virgilio. Secondo questa visione, Virgilio sarebbe quindi un precursore del Cristianesimo, una sorta di profeta ante-litteram, ma neanche questo merito sarà sufficiente a garantirgli la possibilità di guadagnarsi il Paradiso. Alla vista del poeta mantovano, Stazio è talmente felice da buttarsi ai suoi piedi, ma Virgilio gli ricorda che sono entrambi ombre, e non è possibile un contatto tra i due, e ciò mantiene fede al principio dell’inconsistenza dei corpi aerei, ma l’inconsistente Virgilio in precedenza aveva abbracciato e addirittura baciato Dante (Inferno VIII).

Il problema principale però, è che qui Dante confonde il poeta Publio Papinio Stazio, nativo di Napoli, con il suo contemporaneo retore Lucio Stazio Ursulo, lui sì nato a Tolosa come afferma Dante nel canto, ma su nessuno dei due si hanno notizie riguardanti una conversione al cristianesimo. Questo mix di fantasia e confusione lo troviamo anche nel Paradiso dove il poeta fiorentino scambia San Pier Damiani per Piero degli Onesti (canto XXI), e inventa un’improbabile resurrezione (grazie alle preghiere di San Gregorio Magno, vissuto circa cinque secoli dopo di lui) dell’Imperatore Traiano dopo un periodo nel Limbo, per permettergli di convertirsi al cristianesimo e guadagnarsi il Paradiso (XX). Un espediente quest’ultimo, piuttosto azzardato e ben poco conforme alla dottrina cattolica, per permettere a Dante di collocare in Paradiso un imperatore romano da lui ritenuto buono e giusto (si cita l’episodio in cui punisce l’assassino del figlio di una vedova prima di partire per la Dacia), ma che nella realtà non fu mai un seguace di Cristo, tutt’al più si limitò a tollerare i cristiani, ma anche a punirli quando provocavano disordini.

Prima di citare altre incongruenze, devo ammettere che forse sto esagerando, e temo che qualcuno potrebbe iniziare a credere che io sia un detrattore del Sommo Poeta, perciò mi fermo qui.

Se ci penso, però, sono ancora molte le “stravaganze” di Dante di cui parlare, quindi penso che riprenderò l’argomento.