Lezione del giorno: la parsimonia di sé non sempre è egoismo

– Che lavoro fai?

– Insegno.

– Ahahah, se fossi un tuo allievo diventeresti matta.

– Quindi sei laureata in teologia?

– Sì.

Con me diventeresti atea.

– Ah, e sei una giornalista?

– Sì.

– Ma si fanno veramente soldi?

– Quindi scrivi?

– Sì.

– Io i libri li uso per accendere il camino, me ne regali una copia?

Dopo un silenzio più o meno lungo, vorrei essere breve, ma intensa: a che serve stare al mondo quando si devono ascoltare cotante perle di saggezza popolare?

La verità è un’altra: tutto questo è immondizia. Il mondo è pieno di immondizia, perché ci prendiamo cura solo di noi stessi e il resto va inesorabilmente a rotoli.

Ho letto Jane Austen con le mie alunne.

Sono entrate nelle viscere di Orgoglio e Pregiudizio, hanno bene a mente che “The Lady” non poteva firmare i suoi libri perché la donna non poteva dimostrare di essere all’altezza di lavorare e, peggio, vivere del suo lavoro.

Mi hanno ricordato quanto possa essere assurdo vivere di pseudonimi che poi danno luce a un corpo che non esiste o a corpi che, invece, portano altri nomi e vanno avanti per la loro strada.

Le mie alunne hanno commentato rigo per rigo lo sdegno, l’incoerenza di Elizabeth Bennet, l’ostinazione di un sentimento e, fino alla fine, hanno provato a sapere con anticipo quale fosse il finale.

Giunte lì, non mi hanno detto che era tutto scontato, al contrario. Erano talmente disilluse dalla vita nonostante la loro età, da essere certe che non fosse possibile un “e vissero felici e contenti”.

Dopodiché hanno visto un tramonto, hanno visto occhi che si passavano attraverso e bocche che si bramavano senza toccarsi: la classe, quella non è acqua.

“Prof., ma esistono cose così?”

“Sì”

“Prof., noi ti crediamo, lo sai. Ti prendi la responsabilità del sì?”.

“In pieno. Confermo e sottoscrivo. Sì”.

Allora insegno, ho studiato teologia, sono una giornalista e scrivo. I miei alunni non mi fanno impazzire nel senso negativo del termine, nessuno è riuscito a trasformarmi in atea, non ho brama di denaro facile e non regalo copie di libri a gente qualsiasi.

Faccio una cosa su tutte, sì: me ne assumo la responsabilità. Ma mi assumo quella per me stessa, prima di tutto. Perché ho seminato molto in questi anni e se smetto di innaffiare i miei campi preda di chissà quale diavoleria dell’esistenza, quelli marciscono. E non è possibile lasciare che accada, poiché ci sono campi e campi.

Alcuni camminano indefessi e nutrono tutto quanto hanno sempre avuto da nutrire: altri non potrebbero, perché hanno riposto tutto in me ed io devo occuparmene. Fino alla fine.

Lezione del giorno: la parsimonia di sé non sempre è egoismo. E di felicità sì, si può morire.

Buon fine settimana a chiunque abbia avuto la pazienza di leggere tutto, anche questa volta.


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Sono una frase, un verso, più raramente una cifra, che letta al contrario mantiene inalterato il suo significato. Un palindromo. Un’acca, quella che fondamentalmente è muta, si fa i fatti suoi, ma ha questa strana caratteristica di cambiare il suono alle parole; il fatto che ci sia o meno, a volte fa la differenza e quindi bisogna imparare ad usarla. Mi presento: Myriam Acca Massarelli, laureata in scienze religiose, insegnante di religione cattolica, pugliese trapiantata da pochissimo nel più profondo nord, quello da cui anche Aosta è distante, ma verso sud. In cammino, alla ricerca, non sempre serenamente, più spesso ardentemente. Assetata, ogni tanto in sosta, osservatrice deformata, incapace di dare nulla per scontato, intollerante alle regole, da sempre esausta delle formule. Non possiedo verità, non dico bugie ed ho un’idea di fondo: nonostante tutto, sempre, può valerne la pena. Ed in quel percorso, in cui il viaggio vale un milione di volte più della meta ed in cui il traguardo non è mai un luogo, talvolta, ho imparato, conviene fidarsi ed affidarsi.