«Tre cose vuole il campo: buon lavoratore, buon seme, buon tempo»
Senza entrare troppo nel merito delle etimologie, desiderio.
Sono giorni che ripeto questo sostantivo senza apparente soluzione di continuità, senza ragione, così, avrei voluto spogliarlo, più che leggerlo e ripeterlo. Ci penso, ci rimugino, lo mollo, lo riprendo, lo metto a letto e a volte resto sveglia io.
Dal latino desiderium, composto di de e sidera, che è la mancanza delle stelle o de-sideribus, come stare sotto le stelle ad aspettare qualcosa. Da un lato l’idea che manchino stelle, dall’altra quella che ci siano e facciano da tetto ad una qualche attesa.
Mi piace pensarla nella seconda accezione anche perché i desiderantes erano soldati che aspettavano i compagni lontani, non rientrati dal campo di battaglia. Mi soffermo a pensare che una di loro doveva essere Penelope, ma questa è un’altra storia… sto facendo indigestione di poemi omerici con mio figlio, quindi è fisiologico andare a parare su di lei.
E cosa significa? Ci vedo mancanza, forse anche un po’ di apprensione e quindi di primo acchito mi sovviene l’idea di bisogno, attesa, tensione.
Un movimento verso qualcosa di assolutamente indefinito, che aspettiamo, ci manca e ci spinge a metterci in condizione di accorciare le distanze: mentre desideriamo, quindi, siamo su una strada, stiamo percorrendo un cammino che apre spazi infiniti. Ci siamo noi e c’è un evento: in mezzo quel soffitto di stelle a chiarirci le linee necessarie.
Ieri ero seduta di fianco ad un collega ed ambedue ascoltavamo le stesse cose: in maniera del tutto pertinente con ciò che si dipanava sotto ai nostri occhi, mi si è avvicinato, ha tirato giù per un istante la mascherina ed io istintivamente gli ho porto l’orecchio. “È proprio costitutivo dell’essere umano eh, non trovare pace, non accontentarsi, cercare”, mi ha detto. Mi sono girata, ho tirato giù io la mascherina e ho sussurrato, “Desiderare. Si dice: desiderare”. Mi ha guardata per un istante lungo tutte le riflessioni del mondo, è tornato dritto, ha ripreso a guardare in avanti. Non ci siamo detti altro.
In effetti, un tempo hanno provato ad insegnarmi che il desiderio è qualcosa di meno puro della speranza, poiché è quest’ultima a fornire la spinta necessaria per andare Verso, ma hanno provato anche a fregarmi insegnandomi a colorare per forza nei margini. Ha funzionato, ha funzionato benissimo, fino a che non ho imparato che ho già talmente tanti limiti fisiologici… quelli posticci sono superflui, inutili, ridondanti e inessenziali.
Dunque ho cercato, ho cercato ed ho cercato e ho dedotto che l’errore sta alla base: sui vocabolari uno dei sinonimi del desiderio è il bisogno e trovo sia uno squilibrio non da poco. Il desiderio è compagno dell’essere, il bisogno è compagno dell’avere. E quindi dobbiamo per forza demonizzare l’avere?
Non credo proprio, poiché il fondo di verità esiste: abbiamo bisogno di avere quel qualcosa, perché quel qualcosa ci fa esseremigliori.
O, perlomeno, questa è la mia percezione di necessità, è questa la ragione per la quale desidero: mi avvicino all’indefinibile e questo infonde un entusiasmo difficilmente replicabile. Qualcosa che probabilmente non ha un capo e non ha una coda, qualcosa che più semplicemente è.
Si tratta alla fin fine di possedere un’idea nei meandri della pancia, sentire che si scava una strada verso il petto dove riesce a stazionare in uno spazio più aperto, dove l’aria è meno rarefatta e l’atmosfera più respirabile ed è incredibile come quel campo conservi sempre uno spazio totalmente bianco, che ha bisogno di essere riempito.
Qualcuno disse volli, volli, fortissimamente volli. Allora, forse, si può anche dire voglio, voglio, fortissimamente voglio.