
A 18 anni dalla scomparsa del cantautore genovese, ripercorriamo le parole e i pensieri sempre attuali della sua poetica.
“La pietà si appoggia al suo bombardamento preferito e perdona la bomba”
(Gregory Corso)
L’11 gennaio 1999 ci lasciava Fabrizio De Andrè, osservatore attento della realtà italiana, cantore delle ingiustizie che quotidianamente si sono consumate e si consumano ancora oggi nella società moderna.
Provo a raccontarlo attraverso le sue parole, raccogliendo interviste e stralci di documentari pubblicati negli anni dalle televisioni, le radio e sui suoi diari.
Gli ultimi e il potere:
“Io scrivo di persone che hanno tentato, anche in maniera abbastanza balorda, al di fuori delle leggi scritte, di riuscire a trovare la loro libertà. Che certe volte può contrastare, certe volte addirittura contrasta necessariamente con quelle che sono le leggi scritte. Per questo ho scritto Il pescatore, per questo ho scritto tante altre canzoni come Bocca di rosa. Cioè per me l’importante è fare capire alla gente che le leggi scritte possono essere scritte in ogni caso, in ogni modo e in ogni tempo, ma sempre da un gruppo, da un gruppo che è al potere.”
In questo contesto Fabrizio scrive La Ballata del Michè, che racconta di Michele Aiello, emigrato del sud a Genova, in un tempo in cui rubando un tacchino si rischiavano cinque anni di galera, nonostante il tacchino lo si rubasse per fame e non certamente per rivenderlo. Ma Michè aveva fatto qualcosa di peggio: sentendosi emarginato si era affidato anima e corpo ad una donna. Questa gli fu portata via da un uomo più abbiente, lui la uccise, beccandosi 20 anni di carcere. Michè, per De Andrè, è l’immagine di una classe-non-classe, il sottoproletariato, di cui non si occupava nessuno, tantomeno i partiti tradizionali, perché sapevano di non poter contare fino in fondo di quei voti.
“Il potere è una cosa a cui tendiamo tutti quanti, ma bisogna anche saper gestirlo. Soprattutto bisogna saper gestirlo dopo che si conoscono i propri simili, nel momento in cui ci si rende conto che i “simili” sono simili davvero. Che quindi, per esempio, lo stomaco di un operaio ha bisogno, non dico dello stesso numero di calorie dello stomaco di un ingegnere, ma forse anche di qualche cosa di più.”
I privilegi:
“Oggi mi è difficile provare l’indignazione che provavo un po’ di tempo fa. Se proprio c’è una cosa che forse mi indigna ancora è l’accumulo e l’abuso dei privilegi. Io penso che il desiderio di essere privilegiati sia una categoria mentale dell’uomo. Penso d’altra parte che il loro accumulo e il loro abuso non soltanto sia indignante, ma un pericoloso gioco sociale.”
Questo pensiero De Andrè lo esprime a pieno ne Il bombarolo, canzone contestuale alle lotte del ’68, che Faber vive a fianco dei gruppi di estrema sinistra, tentando di essere parte attiva del rinnovamento. Testo che è una fotografia terribilmente vicina a quella che è una realtà per noi ancora molto attuale.
Potere troppe volte/Delegato ad altre mani/Sganciato e restituitoci/Dai tuoi aeroplani/Io vengo a restituirti/Un po’ del tuo terrore/Del tuo disordine/Del tuo rumore
Così pensava forte/Un trentenne disperato/Se non del tutto giusto/Quasi niente sbagliato/Cercando il luogo idoneo/Adatto al suo tritolo/Insomma il posto degno/D’un bombarolo
Utopia:
“Io penso che un uomo senza utopia, senza sogni o senza ideali, vale a dire senza passioni e senza slanci, sarebbe un mostruoso animale fatto semplicemente di istinto e di raziocinio. Una specie di cinghiale laureato in matematica pura.”
Ne La domenica delle Salme (video con la regia di Gabriele Salvatores) De Andrè tira definitivamente le somme di quella che è la disillusione del ’68, dell’utopia dell’uguaglianza e sul livellamento verso il basso di valori che si è cercato di sostituire senza averne di migliori.
“Sul finire degli anni ’80, la gente aveva perso a tal punto il senso della propria dignità, che si viveva in una specie di limbo, dove nessuno aveva più voglia di protestare, figuriamoci poi di ribellarsi… E non c’è niente di più idoneo perché il potere possa compiere i propri misfatti, nella più assoluta impunità. Questa rassegnata abulia, che coinvolgeva anche artisti un tempo impegnati, giornalisti non di regime e politici di opposizione, è sintetizzata nel finale de La domenica delle salme, dove si parla di pace terrificante, mentre il cuore d’Italia si gonfia in un coro di vibrante protesta: senonché la protesta ha la voce di un coro di cicale, scelto ad emblema del menefreghismo collettivo”.
https://www.youtube.com/watch?v=TkUAtwbCEzE