Il punto di vista del professionista
La condizione nella quale versa la sicurezza sul lavoro negli ospedali inquieta. L’informazione oscilla tra due opposti: l’enfasi stucchevole e retorica dei medici-eroi che, senza sosta, lottano nei reparti di rianimazione per salvare la vita degli “infetti” e l’indice puntato – spesso senza alcun riscontro – contro alcuni sanitari che agendo imprudentemente avrebbero contagiato ospedali, pazienti e comunità.
Fondate o meno che siano queste narrazioni impediscono di cogliere il collegamento tra l’ipotesi che i nosocomi siano focolai epidemici e le gravissime carenze nell’organizzazione della sicurezza delle attività sanitaria in molte (troppe) strutture ospedaliere, dove mancano persino le mascherine e si registrano altre e persino più gravi – se non letali – carenze nella valutazione e nella gestione del rischio. L’errore più grave è stato distinguere le cautele da adottare per i casi di contatto con sospetti positivi (c.d. sintomatici) e le cautele per il contatto con i c.d. non sintomatici. Una scelta del tutto irrazionale, quasi cabalistica.
All’opposto il principio di precauzione impone(va) di applicare le cautele finalizzate a contrastare il rischio da trasmissione anche al rischio da contatto. In ogni caso, differenziare i criteri di protezione per il contatto con sintomatici e per quello con asintomatici non corrisponde allo standard della massima sicurezza possibile che, secondo la consolidata giurisprudenza della Suprema Corte, definisce il paradigma per la valutazione della responsabilità del datore di lavoro.
Certo – si dice – manca(va)no i dispositivi di protezione. È vero (e non è questo il momento per polemizzare sul ritardo delle forniture). Se le risorse non sono sufficienti, che (per esempio) si stabilisca che in ciascuna ASL resti aperto un solo “reparto” per ciascuna specialità (medicina, pediatria, urologia ecc.). In ogni caso, perpetuare l’attuale impostazione della sicurezza sul lavoro in ambito ospedaliero presenta rischi persino catastrofici: ospedali che da luoghi di cura si trasformano in incubatori del contagio, al punto che non è possibile escludere un moltiplicarsi delle assenze al lavoro, sia per l’ulteriore diffondersi della malattia tra i sanitari, sia per la giustificata astensione all’erogazione della prestazione lavorativa, quale conseguenza dell’inadempimento da parte del datore di lavoro degli obblighi di sicurezza.
Questa reazione dell’operatore sanitario sarebbe perfettamente legittima e di sicuro sfuggirebbe all’ipotesi accusatoria dell’interruzione di pubblico servizio (art. 340 c.p.). Secondo la giurisprudenza civilistica (anche recentissima), infatti, il «datore di lavoro è tenuto a predisporre un ambiente ed una organizzazione di lavoro idonei alla protezione del bene fondamentale della salute, funzionale alla stessa esigibilità della prestazione lavorativa, con la conseguenza che è possibile, per il prestatore di lavoro, eccepirne l’inadempimento e rifiutare la prestazione pericolosa ai sensi dell’art. 1460 c.civ.», senza nemmeno perdere il diritto alla retribuzione e restando al riparo da eventuali contestazioni disciplinari.