
Sappiamo davvero cosa diamo da mangiare ai nostri animali?
Dopo l’inchiesta su Moncler, Report porta l’attenzione sulla salute degli animali domestici, compagni del 33% degli italiani, di cui 14 milioni sono proprietari di cani e gatti.
Partiamo con alcuni dati: nell’ultimo anno sono stati spesi 128 milioni di euro, solo per gli snack per cani e gatti. Sono nati ovunque centri benessere per animali, centri per la toilettatura, anche ambulanti, nelle grandi città sono nati cimiteri per animali e si sono moltiplicati i fornitori di servizi più o meno utili per i nostri compagni. È nata un’industria che non conosce crisi e aumenta di anno in anno i suoi ricavi, fatturando nel mondo 90 miliardi di euro l’anno. Fin qui tutto bene, se non ci fosse a fare da contraltare a questi dati lo spreco di cibo fresco, quantificato in 8 miliardi e mezzo di euro solo in Itala. Quindi potremmo chiederci: è davvero indispensabile l’uso di croccantini e snack per i nostri fidi? E quanto la legislazione attuale tutela la loro salute?
La prima notizia è che negli ultimi 10 anni la spesa degli italiani per i loro cani e gatti è aumentata del 70%. Su questa percentuale incide soprattutto il passaggio al cibo industriale a discapito di quello casalingo.
Ovviamente siamo disposti a farlo per il benessere dei nostri animali, ma quello che si evidenzia è che ci sono molti lati oscuri e una legislazione incompleta verso la tutela della salute degli animali e il diritto di informazione dei padroni, a tutti gli effetti consumatori.
La seconda notizia è che, per i farmaci per animali, c’è una legge apposita che vieta ai veterinari di prescrivere equivalenti per uso umano, pena multe salatissime fino a 9mila euro. Nonostante molti princìpi attivi dei farmaci siano uguali a quelli che usiamo quotidianamente, la differenza la fa il prezzo, in molti casi superiore anche più del doppio rispetto ai nostri generici.
I lati oscuri cominciano con l’analisi dei materiali utilizzati per il cibo industriale: viene fuori, ad esempio, che un vasetto “al vitello” costa oltre 8 euro/kg e contiene carni, acqua e cereali non meglio definiti e soltanto il 4% di vitello. Cibo, insomma, che non rispetta la natura etologica di predatori quali sono cani e gatti.
E mentre prolifera l’apertura di supermercati per animali, le grandi aziende multinazionali peccano di trasparenza nell’etichettatura e sponsorizzano congressi per veterinari. Nei loro spot e volantini informativi si appellano al benessere degli animali “assaggiatori” che stanno nei loro centri, salvo poi negare il consenso alla visita degli stessi.
Perché? Nel 2003 la PETA (People for the Ethical Treatment of Animal), attraverso i suoi investigatori, riuscì a filmare di nascosto – attenzione, contenuti non adatti a un pubblico sensibile – queste immagini di pratiche invasive ai danni di cani così detti assaggiatori, per conto della IAMS, una delle società di punta nella produzione di cibi per animali, poi acquisita dalla MARS – proprietaria di Royal Canin. Dopo il conseguente scandalo e le inchieste dell’agenzia governativa americana FDA (Food and Drugs Administration), è stata introdotta, per alcuni prodotti, l’etichettatura “Cruelty Free”. Il problema è che questi prodotti costano notevolmente di più rispetto alla media.
Purtroppo, ad oggi, manca anche una direttiva europea che obblighi le aziende ad indicare il tipo e la quantità di conservanti utilizzati nei loro prodotti, che li rende potenzialmente pericolosi e, in alcuni casi, cancerogeni.
Che fare? Si direbbe: non boicottare, come verrebbe d’istinto, totalmente l’industria dei cibi per animali, ma integrarli, questo sì, secondo le necessità alimentari dei nostri compagni a quattro zampe, impostando una dieta casalinga seguendo i consigli del nostro veterinario di fiducia.