A dieci giorni dal ritorno del regime talebano a Kabul

Avere vent’anni nell’Afghanistan perduto

 

Avere vent’anni – o giù di lì – in Afghanistan. Il tempo di una guerra conclusa con una disfatta e una grande paura: la propria libertà che scompare, inghiottita dal buco nero del fanatismo rappresentato dagli studenti coranici conosciuti a livello globale con il nome di Talebani, ormai padroni incontrastati del Paese.
Avere vent’anni in Afghanistan- in queste settimane – significa vivere un incubo, sapere che presto la propria vita cambierà, che nulla sarà come prima e l’unica salvezza sarà fuggire, se non si vuole vivere come imposto dai jihadisti.

Come Zaki Anwari, dicianovenne promessa del calcio afgano tra i “falling men” di Kabul, caduto nel vuoto dopo essersi aggrappato all’aereo nel tentativo disperato di lasciare il Paese.

In questi giorni di tarda estate, mentre tutti si interrogano sulle sorti dell’Afghanistan, sugli errori di noi occidentali, sull’esercito dissoltosi come neve al sole, sulle istituzioni crollate e senza leadership, sono soprattutto loro, i ragazzi e le ragazze afgane a temere per la loro libertà rubata.
Loro che hanno potuto studiare, crescere guardando all’occidente e sognando il proprio futuro in un Paese stabile, democratico, libero.
Non erano ancora nati o erano piccolissimi quando l’Afghanistan era conosciuto per essere il rifugio dei terroristi di Al Qaeda, il posto in cui padroneggiavano i talebani, quando la legge era la Sharia, quando le donne dovevano portare il Burka e non potevamo uscire senza un uomo che le accompagnasse.

Nell’Afghanistan di vent’anni fa le bambine non andavano a scuola mentre i maschi potevano frequentare solo le scuole coraniche.

In questi ultimi vent’anni di guerra, – perché dobbiamo ricordarci che quella per trapiantare una democrazia è stata pur sempre una guerra con migliaia di militari e civili morti – i cittadini afgani hanno conquistato diritti, speranze, possibilità, libertà.

Ma adesso che il éaese è di nuovo controllato dai Taliban, la grande paura degli afgani è che si torni indietro a vent’anni fa.

È il terrore che serpeggia in questi giorni di agosto, mentre dalle province  riconquistate dai miliziani – un avanzata che ha colto di sorpresa tutti per rapidità e facilità- arrivano racconti terribili.

Giornalisti costretti a lasciare il Paese – come l’inviata della Cnn Clarissa Ward – liste di ragazze e donne single compilate dai talebani per darle in sposa ai combattenti, il ritorno del Burka, le esecuzioni sommarie nei confronti di chi ha collaborato con gli occidentali, università chiuse alle donne e i loro posti di lavoro dati agli uomini: un Paese che non trova pace e torna nel buio del fanatismo religioso.

E – dalla parte di chi questa guerra l’ha combattuta sperando di impiantare la democrazia lì tra le montagne – lo spettro del Vietnam, di una guerra inutile.

Da quando gli americani hanno annunciato il loro ritiro dal Paese i talebani hanno rialzato la testa, dando il via alla riconquista del Paese.
Si temeva che sarebbe andata a finire così, ma era difficile immaginare una disfatta totale e che la capitolazione del Paese sarebbe stata così veloce, che le istituzioni afgane fossero cosi fragili, che l’esercito fosse cosi debole, che anche territori storicamente ostili ai miliziani sarebbero caduti.

Ne è esempio la città di Mazar – i -Sharif, città del nord vicina al confine con l’Uzbekistan e roccaforte anti-talebana, espugnata senza combattimenti.

Le immagini dei combattenti talebani nel palazzo di Dostum – Signore della Guerra fuggito dalla città anziché difenderla– sono lo specchio della resa totale del Paese di fronte all’avanzata degli studenti coranici.

I talebani non hanno incontrato resistenze, nemmeno nel nord controllato dai Signori della Guerra nemici da sempre dei talebani. Unico barlume di resistenza, la valle del Panjshir.
Nessuno – nemmeno i più pessimisti – tra esperti e leader occidentali poteva prevedere un epilogo così triste e disastroso della vicenda afgana. L’avanzata dei talebani è stata inarrestabile, si è consumata in pochissime settimane e quella democrazia seminata a fatica in vent’anni dagli alleati della Nato è diventata di colpo un illusione di fronte alla caduta di Kabul il 15 agosto e alla partenza del presidente Ghani.
La bandiera talebana è stata issata ormai ovunque nel Paese, e – almeno a parole- i talebani promettono di rispettare le donne, coloro che hanno collaborato con gli occidentali e di volere una transizione senza inutili spargimenti di sangue.

Un film che non avremmo mai voluto vedere, come la fuga da Kabul dei civili del 15 agosto, mentre in occidente si organizzava l’evacuazione dei propri connazionali e in Europa l’unica preoccupazione era la temuta fuga di rifugiati in cerca di protezione.

In questi giorni sono in tanti a interrogarsi sull’utilità o inutilità di questa guerra, altri cercano un colpevole, chi addebita il disastro agli Usa, chi alla Nato, chi agli stessi afgani che non hanno saputo tenersi la libertà e costruire solide istituzioni democratiche.

Verrà il momento per capire dove abbiamo sbagliato e verrà il momento per valutare chi avrà vantaggi geopolitici dal ritorno dei talebani in Afghanistan – vedi Pechino e la sua Via della Seta.

Per il momento resta solo il triste pianto di Kabul – la città che si spegne – e dei ventenni afgani.

E una riflessione, storica e geopolitica.

Dopo la Gran Bretagna e l’Unione Sovietica adesso anche gli Stati uniti hanno visto quanto difficile sia capire quel Paese fatto di montagne, l’incrocio tra Asia e Medio Oriente più strategico e ambito di sempre, quel Paese chi si conferma il Cimitero degli imperi.