«Vien dietro a me, e lascia dir le genti: 
sta come torre ferma, che non crolla 
già mai la cima per soffiar di venti»

(Purgatorio V, vv.13-15)

Siamo ancora nell’antipurgatorio, nel secondo balzo, Dante si attarda con le anime pigre e, tosto, arriva il rimprovero di Virgilio che lo invita a seguirlo e a non perdere tempo dando retta alle voci di chi mormora: favoloso l’onomatopeico «pispiglia» del verso 12…

Il rimprovero del Maestro, che va ancora inserito nel contesto della necessità di affrettare la propria purificazione e che abbiamo già commentato nel canto precedente, ha una tale efficacia che travalica i confini di questa Cantica, sì da assumere tono proverbiale ed essere citato tutte le volte in cui si vuol ricordare a qualcuno (a Dante esule, a ognuno di noi dopo una sconfitta…) la grandezza del proprio valore e l’urgenza di andare oltre le maldicenze dei mediocri. Una torre non crolla per il soffiare dei venti, tanto più forti quanto più essa svelta alta e salda:

«Vien dietro a me, e lascia dir le genti:
sta come torre ferma, che non crolla
già mai la cima per soffiar di venti»

(Purgatorio, V, vv.13-15).

Segue l’incontro con coloro che sono morti per morte violenta, ma pure hanno fatto in tempo a pentirsi. Anche loro chiedono informazioni sul perché il corpo di Dante getti ombra e, una volta rincuorati e illuminati dalle parole di Virgilio, si presentano per chiedere al Poeta di ricordarli ai loro cari e chiedere loro di intercedere nella preghiera.

In sequenza, conosciamo le vicende di Iacopo del Cassero, ucciso nel padovano, là dove sperava di trovare accoglienza, e di Bonconte da Montefeltro – questi, sì, salvo a differenza del padre Guido, che tutti reputavano in paradiso e invece già sappiamo essere dannato.

Ai limiti del teatro del grottesco la disputa per l’anima di Bonconte tra un angelo e un diavolo: quest’ultimo, vistosi beffato «per una lagrimetta», infierisce sul corpo esanime del medesimo Bonconte, tanto da seppellirlo sul fondale dell’Arno di modo che nessuno possa più ritrovarlo.

Quattro versi, in chiusura, bastano a scolpire per sempre nei nostri cuori l’immagine di Pia de’ Tolomei, che non chiede, solo accenna, e non accusa, solo allude, bisbiglia, questo sì, ma non per mormorare. Il resto lo sa colui che prima la chiese in sposa, poi le offrì l’anello nuziale e infine l’uccise (i femminicidi hanno storia crudele e antica…):

«ricorditi di me, che son la Pia:
Siena mi fé, disfecemi Maremma:
salsi colui che ‘nnanellata pria
disposando m’avea con la sua gemma»

(vv. 133-136).

E così, tra venti e ombre, tra necessità di accelerare e bisogno di sostare, tra chi dimentica i propri cari e chi perdona oltre la morte, il cammino di Dante, un po’ come il nostro, avanza. A meta certa, il suo, a meta certa anche il nostro: lui, atteso da una visione promessa e benedetta, noi attesi dalla fine di questa vita, ma non meno benedetti per averla vissuta. Il resto è di là a venire…

Publilio Siro: «Vivono male quelli che pensano di vivere per sempre».

J.M. Barrie: «La vita è una lunga lezione di umiltà».

Ella Maillart: «Ho dovuto vivere nel deserto prima di riuscire a capire il pieno valore dell’erba in un fosso verde».


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La mia fortuna? Il dono di tanto amore che, senza meriti, ricevo e, in minima parte, provo a restituire. Conscio del limite, certo della mia ignoranza, non sono mai in pace. Vivo tormentato da desideri, sempre e comunque: di imparare, di vedere, di sentire; di viaggiare, di leggere, di esperire. Di gustare. Di stringere. Di abbracciare. Un po’ come Odysseo, più invecchio e più ho sete e fame insaziabili, che mi spingono a correre, consapevole che c’è troppo da scoprire e troppo poco tempo per farlo. Il Tutto mi asseta. Amo la terra di Nessuno: quella che pochi frequentano, quella esplorata dall’eroe di Omero, ma anche di Dante e di Saba. Essere il Direttore di "Odysseo"? Un onore che nemmeno in sogno avrei osato immaginare...