Il Dolmen “La Chianca” di Bisceglie

Mi era venuta incontro leggera: sembrava che volasse sopra una piuma, dopo che si era staccata dall’ala di un fringuello e, nell’incedere del suo lieve slancio, mi regalò la quiete.

Tutt’intorno, in squadra ordinata, si potevano mirare gli ulivi saraceni: abbarbicati tra gli affioranti sassi e fieri sotto un sole di fine autunno. La vestale mi si avvicinò, mi afferrò per mano e, senza alcuna ansietà, mi condusse su per il sentiero fino allo spiazzo di un’aia modellata. Era stata plasmata dalla mano dell’uomo, quello assennato, perspicace, ragionevole, intorno al sito, dove affiorava integro, nella sua vetustà, il mirabile Dolmen.

Era lì come un saggio tomo, le facciate aperte, a mo di pagine, a indicare, al lettore, il cammino dell’uomo, durante il suo incerto viaggio nella storia del tempo. Era in pieno mutismo il Dolmen. Questo la diceva lunga sulla sua immobilità poiché era proprio il silenzio a vincere sul ridondare della modernità nella quale, dopo secoli e poi millenni si era venuto a trovare.

Non vi erano più canti di cicale poiché la brezza che arrivava dal mare silenziava del tutto il loro flebile frinire. Forse erano stanche del lungo, assolato paesaggio pugliese, attraversato dal torrido clima di una mirabile, ma non sfinita stagione.

Il silenzio del sito ovattava i lobi alla pari di un nido abbandonato. Solo la fragranza, l’effluvio erbaceo e l’aria, frizzante di salsedine, ti tempestava le narici alla pari di un balsamo famigliare: quello che ha sempre definito la natura sana, temperata, fiorente che involve la Puglia.

Il Dolmen riceveva visita ma non dava l’aria di chi si rallegra, anzi sembrava pensieroso, taciturno, fermo come una stele miliare dopo che ha perso il conto dei distratti viandanti sfilategli sulla via. Era lì serio, imponente, misterioso, adagiato come un guerriero dopo essere uscito da un confronto bellico. Il Dolmen, si capiva, ne era uscito vincente: aveva combattuto il nemico tempo, le intemperie, l’acidità delle piogge, l’incuria dell’uomo con la sua vanità e le molteplici avversioni, i distacchi, le indifferenze che spesso si nutre verso cui nulla produce, per saziare i propri egoismi.

Io lo guardai e mi accorsi che, pur senza scalpore, quasi con benevolenza, lui mi riconobbe e mi salutò. Agì come farebbe un padre nello strizzare l’occhio al figliol disattento: con uno sguardo ammiccante, sornione. Io intesi subito il suo linguaggio e, seduta stante, mi resi quasi complice della sua circospezione, della ritrosia che una siffatta “personalità” ha per gestire la propria longevità e l’esperienza in essa maturata. Ma non stetti lì a spiegarmi il motivo perché lui si era rivolto proprio a me, anzi ne approfittai per fotografarlo in tutte le sfaccettature possibili. Avvertii che lui se ne compiaceva e che, orgogliosamente, assumeva pose tali che nemmeno un attore avrebbe saputo imitarle. Si era creata una certa atmosfera nella quale pure gli ulivi si erano uniti a noi dopo essersi cambiato l’abito: un vento leggero, movendo le foglie, come lamelle sfavillanti, gli aveva modellato, il verde smeraldo delle sue vesti, in panni d’argento.

Il sole se ne stava in disparte, non più alto nel cielo screziato da nuvole amiche. Era in prossimità di congedarsi, non per un riposo, dopo le tante ore spese a rischiarare la “cupola”, ma per l’incarico preso con altre genti in altrettanti luoghi; per non dare adito alla notte di avvolgere, con le tenebre, la loro vita; per illuminare loro la strada affinché ogni passo, sia messo senza esitazione e sia orma l’asciata per dare un significato alla propria storia. Ci aveva lasciato, spegnendosi il sole. L’aveva fatto senza alcun preavviso ma con discrezione, senza scalpore, proprio come farebbe un genitore, dopo il bacio sulla fronte, uscendo in punta di piedi dalla stanza dove lascia il figlioletto, adagiato sulle coltri dopo averlo affidato a Morfeo. I lumini avevano occupato il posto dell’astro. Erano questi, ora, a rischiarare il notevole Dolmen, aiutati da uno strale di luce riflessa rimanente in un cielo di giada. Il mio cuore era talmente dimesso tanto che pure l’occhio s’inumidiva. Era la mente che, rivolta al passato, attraverso le vestigia dell’avo, si portava fin dentro l’anima della pietra quella sacrale del Dolmen “La Chianca” di Bisceglie, per ritrovare una pace perduta di cui l’uomo, io stesso, sente il bisogno di ritrovarla. Ora si udivano i passi, incedere e, una voce recitante trasmetteva, ai cuori rilassati, l’armonia necessaria per vivere il buio della notte dove il silenzio regna, ma è talmente cupo, da rabbrividire persino la speranza. La vestale era avvolta da una fiamma empirica, quasi glaciale e apriva, al Dolmen, attraverso un rito trascendentale, la porta verso un riconoscimento universale quale simbolo di vera pace.

Salvatore Memeo, socio Unesco Club di Bisceglie


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Salvatore Memeo è nato a San Ferdinando di Puglia nel 1938. Si è diplomato in ragioneria, ma non ha mai praticato la professione. Ha scritto articoli di attualità su diversi giornali, sia in Italia che in Germania. Come poeta ha scritto e pubblicato tre libri con Levante Editori: La Bolgia, Il vento e la spiga, L’epilogo. A due mani, con un sacerdote di Bisceglie, don Francesco Dell’Orco, ha scritto due volumi: 366 Giorni con il Venerabile don Pasquale Uva (ed. Rotas) e Per conoscere Gesù e crescere nel discepolato (ed. La Nuova Mezzina). Su questi due ultimi libri ha curato solo la parte della poesia. Come scrittore ha pronto per la stampa diversi scritti tra i quali, due libri di novelle: Con gli occhi del senno e Non sperando il meglio… È stato Chef e Ristoratore in diversi Stati europei. Attualmente è in pensione e vive a San Ferdinando di Puglia.