I social sono dannosi. E noi, in fondo, lo sappiamo, ma ce lo nascondiamo.

È nato in Lettonia nel 2010 Ask.Fm (che sta per Ask for me), uno dei social networks che ha recentemente registrato un picco di popolarità in Italia, tra i quattro paesi al mondo con più iscritti.

La piattaforma si basa su domanda e risposta. Ciò che la rende, per così dire, “speciale”, è il fatto che le domande possono essere poste in forma anonima. Vengono inviate istantaneamente, senza alcun tipo di censura per le “cattiverie assassine”, con il solo limite massimo di 300 caratteri, che può facilmente essere aggirato attraverso l’estensione del testo in due o più domande.

Secondo Sameer Hinduja, professore di criminologia alla Florida Atlantic University, la necessità di affermazione, molto sentita durante l’età adolescenziale, è parte del fascino di Ask. I teenagers sono allettati dal pensiero di ricevere domande perché ciò si traduce in tempo, attenzione o interesse dedicato loro da qualcuno. Chi sia questo qualcuno, o “nessuno”, che non dichiara la propria identità e rinuncia ad essere sé stesso, è poco importante, se sazia il bisogno di continue conferme. Siamo ragazzi egoisti, insicuri, fragili, noi della generazione Z.

Ho trovato alquanto interessante analizzare il comportamento di chi porge domande anonime immedesimandomi nell’individuo che, divenendo per l’appunto un anonimo, si avvale della facoltà di chiedere qualsivoglia cosa a chiunque non dichiarando di essere sé stesso: l’anonimo è, dunque, una persona che in quel momento non desidera essere una persona.

Allora se tutti gli individui che formulano domande anonime su Ask non vogliono essere persone, chi o cosa è l’anonimo? Niente, “nessuno”.

Eppure le parole pronunciate dal Nessuno di turno possono persino uccidere. Il mondo virtuale che dovrebbe oggi garantire privacy e sicurezza, serve la morte su un piatto d’argento.

Hannah Smith, Clara Pugsley, Erin Gallagher, Jessica Laney, Rebecca Ann Sedwick, Venaria Reale, sono soltanto alcune delle recenti vittime, tra i 12 e i 16 anni, suicidatesi a causa dei pesanti insulti ricevuti su Ask da propri coetanei.

È giusto permettere a un nonnulla o nessuno di cambiare il proprio stato d’animo, in meglio o in peggio? È giusto piangere per nessuno, sorridere per nessuno, spendere tempo per nessuno? Trascorrere all’incirca un’ora al giorno (siamo buoni) e dunque trecentosessantacinque ore all’anno per nessuno? Se lavorassimo trecentosessantacinque ore all’anno e venissimo pagati circa sette euro all’ora, guadagneremmo ben duemilacinquecentocinquantacinque euro. Con i quali potremmo partire. Prendere un aereo per la nostra amata meta, scoprire, fotografare, conoscere, maturare. Avere qualcosa da raccontare.

Sembra una chimera lontana e impossibile, invece è la realtà. Basta guardarsi intorno.

Inizio domani, oggi rimango sul divano a rispondere agli anonimi. Almeno “perdo un po’ di tempo”. Oddio, una domanda! È lui, è M., ero sicura che mi avrebbe scritto. Devo subito chiamare la mia migliore amica: “Pronto? Martii? Sai chi mi ha scritto su Ask? Ah, non lo sai? Vai a vedere, subito…”.

I social sono dannosi. E noi, in fondo, lo sappiamo, ma ce lo nascondiamo. I noiosi stereotipi contro la generazione “Z”, pur vero alimentata a pillole di web e virtualità, ci inducono, nel tentativo di riscattarcene, a resuscitare simboli, icone e mode di generazioni passate, e trapassate pure, che meno di noi si stanno rendendo conto di vivere quello che alle scuole elementari sognavano di raggiungere attraverso magiche macchine del tempo. Il futuro. Che forse è giunto troppo velocemente, ma al contempo si è fatto tardi per rifiutarlo. Il trarne un possibile vantaggio sta a noi. Ma questo non succede, non sta succedendo: sarà che a drogarsi di tanta inutilità, inutili lo si diventa?

 


1 COMMENTO

Comments are closed.