Il giorno in cui si ritirerà, bisognerà dividere la serie A in a.T. (avanti Totti) e d.T. (dopo Totti)

Be’, si sa, sono in fissa col pallone, amo tutto di questo sport: dal momento in cui si organizza una partita, passando per il calpestare l’erbetta ricoperta di rugiada e umidità in inverno e quella dura come l’acciaio in estate, sino al momento in cui sudicio entri in doccia. Non vi sono motivazioni vere su cui trova fondamenta la mia ossessione per questo gioco, forse il fatto stesso che è così importante, ma rimane pur sempre un gioco. Tutto nella settimana ruota intorno al giocare a calcio, pure gli appuntamenti con una ragazza… bugia, quelli no.

Sin da quando, a 5 anni, entrai per la prima volta in un campo di calcio, uno è stato il mito idolatrato: aveva il capello lungo, ingelatinato, calzettoni che non superavano il polpaccio, maglia fuori il pantaloncino e una classe immensa, del tipo che poteva giocare di spalle, ma sapeva sempre come metterti in porta, e se voleva far gol poteva partire dal sua metà campo e dribblare ogni singola pedina, perché lui non faceva, non ha mai fatto, e non fa mai assist e gol banali, neanche se si tratta di insaccarla dagli 11 metri. Lui, l’unico di cui possiedo una maglia che non sia del Torino (la mia squadra del cuore!), seppure quella dell’Italia, quella degli europei del 2000, quando col numero 20 mise a sedere un gigante come Van der Sar, con un gesto così elegante e semplice che passerà alla storia col nome di “cucchiaio”. Avevo la sua maglia e questo mi bastava a sentirmi più forte. Oltre a vedere ogni domenica gli highlights del Torino, guardavo solo quelli della Roma, avevo voglia di incantarmi, di emozionarmi, di ammaliarmi di fronte a cotanto estetismo calcistico.

Francesco è l’ultimo di quel calcio romantico, quello che mi ha concesso la fortuna di innamorarmi di una sfera rincorsa da 22 fessi, perché alla fine è solo questo, ma, se ci aggiungi la magia del genio, i cori di un tifo pulito, e l’alchimia che si instaura come polo magnetico su quel prato, allora non è una semplice presa per il c… . L’ultimo ad aver anteposto la fede al dio denaro, l’ultimo ad aver avuto il coraggio di declinare i ripetuti inviti dei galacticos del Real Madrid, l’ultimo ad aver scelto di essere calciatore per lasciare qualcosa di buono ai posteri, e non per spassarsela nel dolce far nulla, in un letto di banconote di gran taglio. A proposito dei suoi 23 anni con i colori della Lupa dirà: «Dicono che è stato un mio limite il fatto di non aver mai cambiato squadra. In realtà era il mio sogno fin da bambino. Qui si vince poco, ma è stata una scelta di vita. Una scelta d’amore!»

Totti, uno dei pochi ad aver investito i suoi euro in umanità, come dimostrano il fatto di essere ambasciatore UNICEF e le scuole calcio aperte per bimbi diversamente abili. Dirà: «Non ci sono bimbi normali e diversi, siamo tutti uguali perché tutti su un campo di calcio gridiamo “Aòòò! Passame la palla!”»

Francesco è l’ultimo 10. Il conteggio del calcio sdovrebbe ripartire dal giorno in cui piangeremo il suo addio. Da quel giorno la seria A dovrebbe essere divisa in a.T. (avanti Totti) e d.T. (dopo Totti), perché il pupone è la ragione del mio essere malato per questo gioco e mi piace pensarlo, come dichiarò John Arne Riise, la cosa più vicina a Dio in un campo di calcio, perché lui con tutta la sua semplicità, con la sua sana ignoranza, a volte anche con i suoi scatti di ira, rappresenta l’umano: ma col cuoio rotondo tra i piedi è DIVINO.

A France’, quel giorno, il giorno del tuo ritiro dal calcio giocato, ancora una volta ti ringrazierò e mi inchinerò all’ultimo imperatore di Roma.

Chapeau, France’, e 40 anni di altre illuminazioni.