Il Risveglio di una singola persona ha il potere di risvegliare la vita di tutti quelli che le sono intorno
Maria si svegliò di soprassalto.
Nella notte, un’immagine sgradita si era insediata nei suoi pensieri, turbando il suo sonno.
Cercò di riaddormentarsi – era ancora presto, accidenti – ma non appena si rigirava, quella, zac, le scivolava accanto e stava lì a fissarla, beffarda.
-Uffa – brontolò fra sé – faccio prima ad alzarmi, che qui, la situazione non migliora – e lanciando delicatamente all’aria la coperta, tirò le gambe fuori dal letto, prima una poi l’altra, tastando il pavimento alla ricerca delle pantofole. Infine, con uno scatto di reni, si mise in piedi.
Rivolse il capo verso il letto; suo marito riposava beato.
– E chi lo smuove? – pensò, sarcastica.
Indossò velocemente la felpa che teneva accanto al letto e via in cucina. Sigaretta, caffè e magari anche il tempo per sentire le notizie in Tv.
Era l’alba ma appena spalancò le imposte del piccolo balcone la luce sembrò scaricarsi su di lei con una furia invadente, quasi a possederla.
Il borbottare della caffettiera la richiamò dentro. Dopo pochi secondi era nuovamente fuori e sorseggiava il suo caffè, persa nel vuoto.
Un gruppo di giovani signore percorreva le vie della città, a passo veloce. Il suono delle loro voci richiamò la sua attenzione. Le vide incedere sicure ed eleganti, fisico tonico fasciato in un completo fluo che per un po’ rallegrò il suo risveglio.
Quando la strada ritornò silenziosa e vuota apparve chiaro che essersi svegliata non aveva posto fine al suo incubo, che si era mosso con lei e l’aveva seguita concedendole solo una piccola pausa – caffè. – Cos’era diventata? Come aveva potuto trasformarsi in quell’ammasso di carne che straripava da tutte le parti?
Gli occhi cominciarono a bruciare mentre la vista si appannava sempre più e mentre stava per essere inghiottita ancora una volta nella voragine nera del suo incubo, le sue gambe si mossero, automaticamente, e la condussero verso la cabina armadio. Si vide inginocchiata sull’ultimo cassetto, quello dove conservava l’abbigliamento sportivo e cercare.
Afferrò una t-shirt di suo marito, quella comperata in viaggio di nozze, con la decalcomania del villaggio vacanze -Wow, questo sì che era un ricordo che valeva la pena di far riaffiorare – cercò il pantalone della tuta abbinato alla sua felpa, calzini, un reggiseno e via in bagno.
Si svestì e si rivestì in un battibaleno senza rendersi nemmeno conto di quel che stava succedendo; dalla scarpiera prese un vecchio paio di scarpe da ginnastica, da basket per la verità – ma chi se ne importa? – e scese, acchiappando al volo le chiavi di casa. Piano, cominciò a correre. Anna era stata malata per tanto tempo che non ricordava nemmeno più la sensazione di stare bene. Si era abituata a non sentire più le cose che toccava, a convivere con quel sapore metallico nella bocca che le toglieva il gusto del cibo, a organizzare le sue attività in base alle scadenze quindicinali dell’Appuntamento a cui non poteva mancare, a registrare ogni sintomo, anche il più banale, che potesse segnalare un nuovo “disagio fisiologico”.
Era stanca di vivere così; molto spesso si era chiesta se ne valesse la pena, di vivere così, poi si guardava intorno, vedeva la sua casa, incrociava gli occhi di suo marito che la monitorava continuamente illudendosi di non essere visto e leggeva l’amore di cui era circondata. Rimetteva a posto quei pensieri e ricominciava a combattere per continuare a vivere. Ogni giorno qualche combattente come lei abbandonava il campo di battaglia e quando fu la volta di Ines, tutto cambiò.
Ines, giovane ragazza dall’accento calcato, bella come una bambola. Era stata la compagna di stanza che aveva conosciuto durante uno dei suoi Appuntamenti.
L’aveva vista arrivare, capelli lunghissimi e folti, accompagnata dal marito a cui lei chiedeva continuamente il favore di spazzolarle i capelli. Passavano la maggior parte del tempo così: lei sdraiata e lui, accanto a lei a spazzolarle i capelli come a rassicurarla che fossero ancora là.
Quando fu la volta di Ines insorse un grido di ribellione e di rivalsa. Una voce che rivendicava finalmente il suo diritto a vivere, come tutti.
E allora su quel taccuino in cui riportava i segnali di ogni anomalia del suo organismo decise di cominciare a registrare i segnali della sua ripresa.
Si unì ad un gruppo di atleti della sua città, cominciò ad allenarsi con loro, una due tre volte alla settimana e ogni volta registrava i chilometri del loro percorso. 5. 10. Le prime gare. 12.15….20 …21. La prima mezza…25….42,5. Una maratona.
Ogni giorno un piccolo pezzo di strada in più. E poi si sparse la voce di QUELLA gara… C’era quella donna del Sud, sempre in giro, su e giù per l’Italia. A correre maratone come se fossero scampagnate divertenti tra amici.
Aveva cominciato a correre tanti anni prima, quasi per caso, un giorno che un incubo aveva interrotto bruscamente il suo sonno e non si era fermata più. Dal giorno del suo Risveglio aveva corso più di 100 maratone. Non era interessata ai record, non badava al tempo. Lei correva per festeggiare la vita che era tornata a splendere dopo che quell’immagine ingombrante di una sé che non si riconosceva più, aveva lasciato il posto ad una donna sorridente e grintosa.
La corsa era diventata la sua vita e correva così come viveva; correva e sorrideva, giocava, si fermava ad abbracciare gli amici che incontrava, portava il tempo ed incitava gli altri a non mollare.
E in ogni città in cui correva, chiedeva alle donne che incontrava: “Ti piacerebbe far parte di un gruppo speciale? Ci stai a partecipare ad un’impresa di quelle che ti riempiono la vita per sempre?”. 100 donne per correre 100 km. Tutti in una volta. Da Firenze a Faenza; la corsa del Passatore. Un percorso non facile, tante salite. Un percorso lungo, da correre dal pomeriggio al dì successivo. Senza dormire. senza fermarsi. Senza aiuti se non quelli previsti dalla gara: i punti ristoro lungo il percorso. Nessun favoritismo.
100 donne per 100 km. 100 donne per 100 buoni motivi. Ogni donna con il suo.
Era una sfida. Certo. E lei la proponeva con il suo sorriso disarmante, come se fosse una cosa fattibile, tutto sommato – Basta allenarsi per bene. Nulla è impossibile -.
E 100 donne avevano detto di sì. Ognuna aveva i suoi motivi per sfidare il proprio fisico e la propria forza di volontà e affrontare quei 100 chilometri.
C’erano quelle come Anna che desideravano gridare vittoria contro le avversità della vita, quelle che volevano ringraziare, c’erano quelle che semplicemente avevano voglia di esserci, di partecipare a quell’impresa.
Si sono ritrovate tutte lì. Davanti al duomo di Firenze in un pomeriggio di maggio, per fortuna, non molto caldo.
Hanno affrontato le salite, la pioggia, la notte, il sonno, il dolore; alcune si sono fermate strada facendo ma tutte hanno vinto la loro battaglia, a modo loro.Qualcuno dice che la vera vittoria non sta nel vincere la battaglia che hai intrapreso ma nella audacia con cui la affronti, nella determinazione a non lasciarsi sconfiggere. Mai. Mai senza aver lottato con tutte le tue forze.
Qualcuno dice che ognuno di noi ha una missione da svolgere; che il Risveglio di una singola persona ha il potere di risvegliare la vita di tutti quelli che le sono intorno.
Non è importante l’azione che compi per realizzare ciò, non sono necessarie gesta eccezionali. È il senso di ciò che realizzi che fa grande l’impresa.
Correre quella gara, ha sicuramente rappresentato un’esperienza densa di significato e sono certa che, per molte, ha avuto il potere salvifico di riaccendere la scintilla della speranza.
Sono sicura che ognuna di loro porterà nel cuore il ricordo di questa gara, che di tanto in tanto, ritornerà a loro, magari colorando di speranza e di gioia i loro sonni, affinché il Risveglio sia ogni giorno più dolce.
Le foto sono state gentilmente messe a disposizione da Mariella Di Leo, la donna del Sud di questo racconto e da Raffaella Losito, che questa volta faceva da supporter.