Una riflessione a seguito del convegno Principi costituzionali e fragilità sociali: il grido dei poveri, tenutosi a Trani, a giugno scorso
“Homo sum: humani nihil a me alienum puto” (sono un uomo: niente di ciò che è umano mi è estraneo: è questa la risposta che nella commedia Heautontimorumenos del commediografo latino Terenzio, Cremete pronuncia, dopo essere stato invitato da Menedemo a non interessarsi dei suoi fatti e della sua vita.
Terenzio, un immigrato, un intellettuale di origine cartaginese, esemplifica assai bene il concetto greco di philantropìa che in latino è detta humanitas: con questa frase Cremete motiva l’impossibilità per lui di rimanere inerte di fronte alle pene del vicino di casa, che quasi non conosce, in termini di solidarietà semplicemente umana, in nome di un legame che esiste tra tutti gli uomini, proprio e soltanto perché sono uomini. L’humanitas è il frutto della fiducia nei valori positivi dell’uomo e nelle sue capacità realizzatrici. L’uomo rivendica il diritto dovere di interessarsi ai problemi degli altri uomini, con un atteggiamento di solidarietà e condivisione.
Il cristianesimo conferma la validità di questi valori etici universali, già scoperti dai pagani, ma fa un ulteriore passo avanti perché l’uomo è concepito in modo ancora più concreto come proximus. La proposta cristiana dà a questi valori di dignità e solidarietà umana una universalità e una profondità etica che nella cultura latina non potevano avere.
Al dottore della Legge che chiede a Gesù Chi è il mio prossimo? (Lc 10,25-37) Gesù racconta la parabola del buon samaritano e poi ribalta la domanda: «Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». La risposta è inequivocabile: «Chi ha avuto compassione di lui». Ognuno può farsi prossimo di chiunque veda nel bisogno se è capace di compassione, se ritiene che “Niente di ciò che è umano gli è estraneo”.
Dice il Papa nella Evangelii Gaudium che non si può “rimanere sordi a quel grido…Noi siamo gli strumenti di Dio per ascoltare il povero… e ciò implica sia la collaborazione per risolvere le cause strutturali della povertà e per promuovere lo sviluppo integrale dei poveri, sia i gesti più semplici e quotidiani di solidarietà di fronte alle miserie molto concrete che incontriamo” (188-189). Chi sono i poveri oggi? le nostre periferie esistenziali sono piene di esclusi. Il Papa prova a fare un elenco: i senza tetto, i tossicodipendenti, i rifugiati, i popoli indigeni, gli anziani sempre più soli e abbandonati… I migranti (EG 210), le donne (EG 212). I giovani, aggiungerei io! Nella sua riflessione il Papa specifica anche che la povertà non è solo indigenza, mancanza di un tetto; povertà è anche l’impossibilità di avere assistenza e cure mediche, è anche difficoltà ad accedere all’istruzione. In Italia 1 minore su 3 è a rischio di povertà ed esclusione sociale. I ragazzi con problemi economici vanno meno a scuola e abbandonano più spesso gli studi. Oltre alle condizioni di povertà assoluta e relativa si registrano segnali allarmanti anche per i casi di povertà educativa, intesa sia come privazione delle possibilità di accesso ad opportunità educative, sia come privazione della libertà di scelta di quelle opportunità. Alla privazione economica e materiale si aggiunge un’altra povertà, ugualmente grave e drammatica, ma più insidiosa, difficile da misurare: appunto la povertà educativa, la privazione, per i bambini e gli adolescenti, dell’opportunità di apprendere, sperimentare, sviluppare e far fiorire liberamente capacità, talenti e aspirazioni. Negli anni della crisi tale particolare e meno visibile povertà è passata dal 3,9% al 12,5%. Povertà educativa e povertà economica si alimentano reciprocamente in un circolo vizioso fino a diventare povertà affettiva, relazionale, spirituale, sociale, culturale.
Nella nostra Costituzione la crescita culturale dell’individuo è compito fondamentale della Repubblica e la formazione culturale è posta alla base della democrazia. Per questo essa sancisce l’obbligo di istituire scuole di ogni tipo in modo da assicurare a tutti la possibilità di avere una istruzione scolastica che non abbia ostacoli e discriminazioni. L’enunciato dell’articolo 34 “la scuola è aperta a tutti” implica che lo stato garantisce a tutti, anche agli stranieri, per esempio, il diritto all’istruzione adeguata. Il diritto allo studio rappresenta uno degli strumenti più importanti per rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e per dare attuazione, quindi, a quell’eguaglianza sostanziale fra cittadini che è alla base dell’art. 3.
Tra diritto allo studio e principio di uguaglianza si coglie un evidente nesso di reciprocità: se non si tutela il primo non può garantirsi l’uguaglianza fra i cittadini; allo stesso modo se non si assicura l’uguaglianza o, meglio, se non si rimuovono gli ostacoli economici che creano differenze, non si può consentire ai capaci e meritevoli, privi di mezzi, di raggiungere i gradi più elevati degli studi.
I ragazzi con problemi economici vanno meno a scuola e abbandonano più spesso gli studi, fanno meno sport e si ammalano di più. L’istruzione e la cultura sono strumenti fondamentali per arrivare a compiere delle scelte responsabili non solo per quanto riguarda lo studio ma anche per il lavoro e la partecipazione alla vita politica, per la realizzazione di una democrazia realmente inclusiva e partecipativa: ogni ragazzo ha in sé delle qualità straordinarie e deve essere messo in condizione di esprimerle indipendentemente dalla sua appartenenza sociale. Solo la scuola può insegnare a riconoscere la ricchezza della diversità e diventare una palestra di integrazione. Negli ultimi dieci anni, in seguito ai tagli all’istruzione, l’Italia ha visto aumentare la dispersione scolastica (17,6%), l’impoverimento della popolazione giovanile, il numero di precari e il dislivello nella distribuzione della ricchezza. Solo la scuola può realizzare la speranza in una migliore vita civile. Oggi, invece, è spesso lasciata da sola ad affrontare le sfide dell’inclusione degli stranieri o dei diversamente abili.
E quando si parla di scuola non si può dimenticare don Milani. Ecco le sue parole nella lettera al direttore del “Giornale del Mattino”, di Firenze, del 28-3-1956: “Eppure l’uomo non vive di solo pane. C’è dei beni che sono maggiori del pane e della casa e il mancare di questi beni è miseria più profonda che il mancare di pane e di casa. Questo tipo di beni chiamerò ora per comodità di discorso ‘istruzione’, ma vorrei che tu prendessi questa parola in un senso più largo, comprensivo di tutto ciò che è elevazione interiore”.
Animato da un forte senso di giustizia e di giustizia cristiana, Don Milani si era fatto povero in mezzo ai montanari e aveva capito l’importanza della scuola come strumento di elevazione e di giustizia sociale; aveva capito che il riscatto degli ultimi deve necessariamente passare attraverso la promozione della dignità umana. Saper usare le parole distingue chi comanda da chi è destinato ad obbedire. La padronanza della lingua e degli strumenti espressivi determinano, infatti, l’uscita dallo stato di minorità sociale di alcune classi sociali e non il contrario: “La parola è la chiave fatata che apre ogni porta” – scriveva ancora don Milani a chi era in carcere.
La lingua serve anche per capire il Vangelo, che è parola raccontata, e la Bibbia che è parola rivelata.
Per concludere, la povertà nasce dalle disuguaglianze e va considerata come un problema strutturale; perché qualcosa cambi davvero, bisogna affrontare i problemi da più punti di vista e cominciare a risolverli. Sempre don Milani scriveva: “T’accorgerai che il mondo è mal messo. Dio l’aveva creato preciso, aveva fatto gli uomini tutti poveri e tutti ignoranti. Gli uomini invece, non si sa come, si sono accordati per tirar su qualche decina di persone molto ricche e molto istruite e lasciar tutti gli altri come Dio li aveva creati. Da questa violazione dell’ordine naturale son nati infiniti mali (…), in questo mondo infelice ricchezza e istruzione viaggiano sempre a braccetto. Chi è più istruito guadagna più quattrini. Chi ha più quattrini fa più studiare i suoi figlioli. E via di seguito in un circolo chiuso” ( Lettera a una sposa 30/3/1956).
La società in cui viviamo tende a nascondere le disuguaglianze, a non vederle o a far solo finta di affrontarle. Questo già accade se il nostro orizzonte si ferma ai confini nazionali e se il nostro sguardo si posa solo su poveri che almeno godono di quei diritti che saggiamente i padri fondatori garantirono a ciascun cittadino. Di questi poveri bisogna farsi carico sostenendo soprattutto le famiglie e i bambini, favorendo politiche di redistribuzione della ricchezza perché non si offra “come dono di carità ciò che è già dovuto a titolo di giustizia” (Apostolicam actuositatem).
Ma forse lo sguardo del cristiano deve anche spaziare più oltre, e porsi il problema di tutti quei bambini e di tutti quei poveri che nei tanti Sud del mondo aspettano di essere fatti uguali. Magari posare lo sguardo su quelle realtà non potrà bastare a creare quel nuovo ordine mondiale che solo potrebbe sovvertire tali condizioni e sanare quelle piaghe, però potrà servire per poter lottare qui e ora, per assicurare condizioni dignitose e diritti certi ai figli di quei tanti Sud che – per ventura o destino – hanno avuto la benedizione di arrivare e vivere nella nostra terra fortunata non solo per la sua bellezza, per la sua musica, per le sue città scrigni preziosi invidiati dal mondo, ma fortunata anche e soprattutto perché possiede una carta costituzionale saggia e lungimirante, figlia del dolore e della compassione, della tragedia e della speranza.