Che cultura è quella generata dalla viralità?
Assisto abbastanza incredula e stupita a quanto si sta dicendo in questi giorni su Tiziana Cantone. Sto leggendo molto a riguardo, dagli articoli sulle testate giornalistiche fino ai commenti dei miei amici virtuali.
Non ho mai studiato psicologia nella mia vita e non voglio improvvisarmi psicoterapeuta da bar, di quelli che con un bicchiere di birra in mano scolato per metà dicono frasi tipo “non ha retto al peso del giudizio”. Dunque, non improvviserò una perizia psichiatrica e nemmeno entrerò nel merito della questione.
Ma una cosa vorrei dirla e riguarda il mio ambito di studi, ovvero la comunicazione.
Assistiamo in questi giorni a un cortocircuito: gli stessi mezzi che hanno reso il video di Tiziana virale diventano gli strumenti d’accusa della viralità.
Mi sembra di assistere a uno di quei meme che giravano in rete un po’ di tempo fa: pino supino su pino supino e così via. Cioè viralità accusa viralità creando viralità che accusa viralità e così via. Insomma un j’accuse circolare che dà come risultato il punto di partenza.
Non dico niente di nuovo, sia chiaro. A questo tipo di fenomeni assistiamo ogni giorno, basti pensare al caso Charlie Hebdo.
Tuttavia mi piacerebbe fermarmi a riflettere su due aspetti fondamentali:
- Che cultura è quella generata dalla viralità?
- Cosa ci spinge a volerci inserire nel vortice della viralità?
Riguardo alla prima domanda, una volta in una intervista, Oliviero Toscani, il fotografo provocatore, quello che con le sue foto crea un tipo di virilità analogica, ha sostenuto che (cito a memoria) la ricerca ossessiva del consenso genera mediocrità. Mi infastidisce dargli ragione, ma basta fare un semplice esperimento per condividere le sue parole: provate a pubblicare la foto di un artista (non troppo noto) sul vostro profilo Facebook. Provate poi a pubblicare la foto della parmigiana fatta da vostra madre con la frase “Home sweet home”. Fate il conto dei mi piace. Sono quasi certa che la parmigiana sarà accolta con una maggiore generosità di pollici in su. È dunque ovvio che saremo spinti a riversare sulla rete un’ondata di sugo al ragù, meglio se ad annegarci dentro ci sia anche il nostro gattino.
Lungi da me dal fare la morale su cosa sia meglio o peggio. La mia è una constatazione, pura osservazione che apre a un’altra domanda: possono i social media essere il luogo dell’informazione e della cultura? Non è forse il luogo del gioco, del narcisismo, dei flirt e della notizia curiosa?
La seconda questione è delicata. Io stessa in questo momento sto per inserirmi nel vortice. E spero anche che il mio articolo venga letto il più possibile. Più ci penso, più mi viene in mente il buon vecchio Cartesio e il suo cogito, ergo sum. Mi pare che in epoca contemporanea sia necessario rivedere la massima del pensatore latino e riformularla in documento, ergo sum (mi perdonino i latinisti se non conosco il termine adeguato). Cosa c’è dietro la spasmodica volontà di essere sul pezzo, di esprimere la propria gioia e il proprio dolore, di pubblicare le proprie foto del viaggio a Barcellona, se non la necessità di affermarsi, di dire al mondo io esisto e rido, piango, soffro e gioisco? Mi sembra quasi che la documentazione del proprio essere sia essa stessa l’essere (per usare un’altra espressione virale), cioè che la documentazione sia diventata un aspetto ontologico dell’esistenza.
Cosa c’entra Tiziana in tutto questo? Tiziana per me non è una donna che andava protetta dalla società maschilista, solo una vittima della cattiveria, ma il risultato di un complicato gioco che vede intrecciarsi vanità personale degli utenti, clickbaiting, mediocrità. Tiziana è un gioco finito male che genera un altro gioco: prima era il gioco di quella che ha fatto un video porno, ora è il gioco di quella che si è tolta la vita in seguito a un video porno. La viralità che si morde la coda.
La questione è complicata. Io mi fermo qui, non ho tempo di proseguire. Devo pubblicare il mio prossimo post.
Comunicare non e’ relazionare. E l’ambito fa anche la differenza,come del resto il contenuto. Rovesciare la propria quotidianità come fosse un calzino ,esporla ad un osservatorio indistinto e/o ignoto,non e’ potere e tanto meno piacere narcisista. E’ confusione a diversi livelli. E scattano trappole dolorose attivate da ogni sorta di pseudo umanità e civiltà . Lungi da le esprimere giudizi moralistici. E’ una riflessione che pongo,che potrebbe anche sembrare superflua.