
di Massimo Pamio
È difficile commentare la portata storico-culturale e teologica di Papa Francesco. Molti si sono soffermati sulle sue gesta, sulle sue scelte di partecipare con una presenza attiva alla vita di ogni giorno e di interessarsi ai problemi dell’intera umanità, ben pochi, invece, hanno evocato il contenuto altissimo del suo pensiero episcopale e delle sue encicliche, in virtù delle quali ha scritto forse una delle pagine più importanti dal punto di vista teologico della storia della Chiesa dei nostri tempi.
Con Francesco si è tornati al cristianesimo delle origini, a quello dei martiri, e cioè dei testimoni di Cristo e soprattutto a una teologia cristocentrica.
Se l’avvenimento più importante della storia della religione cristiana è stato il Mistero dell’Incarnazione, ebbene Francesco è stato il Papa che, riprendendo la via tracciata da Papa Benedetto XVI, ha riportato al centro del suo ministerio proprio questo avvenimento unico, la riappacificazione tra Dio e l’uomo che storicamente si compie con la venuta del Cristo sulla terra, il Cristo che offre se stesso in remissione dei peccati. Cristo è il Segno dell’Amore ed è la prima voce dell’amore fraterno, che compie, presso l’umanità, una vera e propria rivoluzione antropologica. Ama il tuo prossimo come te stesso, è questo il nuovo insegnamento che il Divino suggerisce all’uomo tramite Suo Figlio, il Redentore. È questa la Redenzione, la riconciliazione in Nome dell’Amore. L’attestazione del contenuto della nuova fede cristiana viene gradatamente riportato al centro del papato di Francesco, nelle sue encicliche: la prima, Lumen fidei, che tiene a ribadire la fede in Cristo quale aspetto centrale della cristianità:
La luce della fede: con quest’espressione, la tradizione della Chiesa ha indicato il grande dono portato da Gesù, il quale, nel Vangelo di Giovanni, così si presenta: « Io sono venuto nel mondo come luce, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre » (Gv 12,46). Anche san Paolo si esprime in questi termini: « E Dio, che disse: “Rifulga la luce dalle tenebre”, rifulge nei nostri cuori » (2 Cor 4,6). Nel mondo pagano, affamato di luce, si era sviluppato il culto al dio Sole, Sol invictus, invocato nel suo sorgere. Anche se il sole rinasceva ogni giorno, si capiva bene che era incapace di irradiare la sua luce sull’intera esistenza dell’uomo. Il sole, infatti, non illumina tutto il reale, il suo raggio è incapace di arrivare fino all’ombra della morte, là dove l’occhio umano si chiude alla sua luce. « Per la sua fede nel sole — afferma san Giustino Martire — non si è mai visto nessuno pronto a morire ».[1] Consapevoli dell’orizzonte grande che la fede apriva loro, i cristiani chiamarono Cristo il vero sole, « i cui raggi donano la vita ».[2] A Marta, che piange per la morte del fratello Lazzaro, Gesù dice: « Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio? » (Gv 11,40). Chi crede, vede; vede con una luce che illumina tutto il percorso della strada, perché viene a noi da Cristo risorto, stella mattutina che non tramonta.
Il cristiano è colui che crede in Cristo e nella Sua missione redentrice, che poi viene affidata agli uomini (in primis agli apostoli, e poi ai martiri) come missione evangelizzatrice.
La fede pone di fronte allo svelamento dell’amore, quale benedizione e incontro con il Divino:
È urgente perciò recuperare il carattere di luce proprio della fede, perché quando la sua fiamma si spegne anche tutte le altre luci finiscono per perdere il loro vigore. La luce della fede possiede, infatti, un carattere singolare, essendo capace di illuminare tutta l’esistenza dell’uomo. Perché una luce sia così potente, non può procedere da noi stessi, deve venire da una fonte più originaria, deve venire, in definitiva, da Dio. La fede nasce nell’incontro con il Dio vivente, che ci chiama e ci svela il suo amore, un amore che ci precede e su cui possiamo poggiare per essere saldi e costruire la vita. (…) La prova massima dell’affidabilità dell’amore di Cristo si trova nella sua morte per l’uomo. Se dare la vita per gli amici è la massima prova di amore (cfr Gv 15,13), Gesù ha offerto la sua per tutti, anche per coloro che erano nemici, per trasformare il cuore. Ecco perché gli evangelisti hanno situato nell’ora della Croce il momento culminante dello sguardo di fede, perché in quell’ora risplende l’altezza e l’ampiezza dell’amore divino.
Già in Lumen fidei Papa Francesco si sofferma su quello che segna il passaggio storico della Chiesa da una affermazione delle proprie verità a quello che è un vero e proprio ritorno alle origini della fede, quando ai martiri si chiede di avere fede in Gesù, per identificarsi in Lui e avere la forza di amare e di comprendere quanto Dio abbia amato il mondo:
La pienezza cui Gesù porta la fede ha un altro aspetto decisivo. Nella fede, Cristo non è soltanto Colui in cui crediamo, la manifestazione massima dell’amore di Dio, ma anche Colui al quale ci uniamo per poter credere. La fede, non solo guarda a Gesù, ma guarda dal punto di vista di Gesù, con i suoi occhi: è una partecipazione al suo modo di vedere. (…) “Crediamo in” Gesù, quando lo accogliamo personalmente nella nostra vita e ci affidiamo a Lui, aderendo a Lui nell’amore e seguendolo lungo la strada (cfr Gv 2,11; 6,47; 12,44). Per permetterci di conoscerlo, accoglierlo e seguirlo, il Figlio di Dio ha assunto la nostra carne, e così la sua visione del Padre è avvenuta anche in modo umano, attraverso un cammino e un percorso nel tempo. La fede cristiana è fede nell’Incarnazione del Verbo e nella sua Risurrezione nella carne; è fede in un Dio che si è fatto così vicino da entrare nella nostra storia. La fede nel Figlio di Dio fatto uomo in Gesù di Nazaret non ci separa dalla realtà, ma ci permette di cogliere il suo significato più profondo, di scoprire quanto Dio ama questo mondo e lo orienta incessantemente verso di Sé; e questo porta il cristiano a impegnarsi, a vivere in modo ancora più intenso il cammino sulla terra.
La salvezza viene dalla fede, e la fede trasforma la persona, rende uomini nuovi che si aprono a un Amore che agisce nel cuore:
A partire da questa partecipazione al modo di vedere di Gesù, l’Apostolo Paolo, nei suoi scritti, ci ha lasciato una descrizione dell’esistenza credente. Colui che crede, nell’accettare il dono della fede, è trasformato in una creatura nuova, riceve un nuovo essere, un essere filiale, diventa figlio nel Figlio. (…) La nuova logica della fede è centrata su Cristo. La fede in Cristo ci salva perché è in Lui che la vita si apre radicalmente a un Amore che ci precede e ci trasforma dall’interno, che agisce in noi e con noi.
Il problema è che l’uomo di oggi non crede più nell’amore.
È noto il modo in cui il filosofo Ludwig Wittgenstein ha spiegato la connessione tra la fede e la certezza. Credere sarebbe simile, secondo lui, all’esperienza dell’innamoramento, concepita come qualcosa di soggettivo, improponibile come verità valida per tutti.[19] All’uomo moderno sembra, infatti, che la questione dell’amore non abbia a che fare con il vero. L’amore risulta oggi un’esperienza legata al mondo dei sentimenti incostanti e non più alla verità.
L’amore compie la verità, è conoscenza:
Senza verità l’amore non può offrire un vincolo solido, non riesce a portare l’”io” al di là del suo isolamento, né a liberarlo dall’istante fugace per edificare la vita e portare frutto.
Se l’amore ha bisogno della verità, anche la verità ha bisogno dell’amore. Amore e verità non si possono separare. Senza amore, la verità diventa fredda, impersonale, oppressiva per la vita concreta della persona. La verità che cerchiamo, quella che offre significato ai nostri passi, ci illumina quando siamo toccati dall’amore. Chi ama capisce che l’amore è esperienza di verità, che esso stesso apre i nostri occhi per vedere tutta la realtà in modo nuovo, in unione con la persona amata. In questo senso, san Gregorio Magno ha scritto che « amor ipse notitia est », l’amore stesso è una conoscenza, porta con sé una logica nuova.
Nella seconda enciclica, Laudato sì, l’amore viene ad estendere il suo raggio d’azione. L’amore deve essere totale, e il vero cristiano non può essere indifferente al mondo creato da Dio. L’enciclica prosegue un indirizzo già in parte imboccato dai papi precedenti.
La sfida urgente di proteggere la nostra casa comune comprende la preoccupazione di unire tutta la famiglia umana nella ricerca di uno sviluppo sostenibile e integrale, poiché sappiamo che le cose possono cambiare. Il Creatore non ci abbandona, non fa mai marcia indietro nel suo progetto di amore, non si pente di averci creato. L’umanità ha ancora la capacità di collaborare per costruire la nostra casa comune.
L’umanità partecipa alla Creazione, è chiamata dal Signore al rispetto della casa comune, sentimento che però pare non preoccupare tanti che pare stiano perdendo la peculiare funzione di avere coscienza di vivere tutti nello stesso luogo, il pianeta terra, e soprattutto di dimenticare di avvertire come precipua la sacralità della vita.
Il mondo è qualcosa di più che un problema da risolvere, è un mistero gaudioso che contempliamo nella letizia e nella lode. La sfida urgente di proteggere la nostra casa comune comprende la preoccupazione di unire tutta la famiglia umana nella ricerca di uno sviluppo sostenibile e integrale, poiché sappiamo che le cose possono cambiare. Il Creatore non ci abbandona, non fa mai marcia indietro nel suo progetto di amore, non si pente di averci creato. L’umanità ha ancora la capacità di collaborare per costruire la nostra casa comune.
Qui stupisce l’atteggiamento di Papa Francesco, che esprime un ottimismo integrale, nutrendo una speranza viva nell’uomo in quanto creatura del Dio che non lo abbandona e non si pente di averlo creato. Un papa che, grazie alla sua fede in Dio, crede nell’uomo. In questa enciclica, egli conia il concetto dello scarto:
C’è da considerare anche l’inquinamento prodotto dai rifiuti, compresi quelli pericolosi presenti in diversi ambienti. Si producono centinaia di milioni di tonnellate di rifiuti l’anno, molti dei quali non biodegradabili: rifiuti domestici e commerciali, detriti di demolizioni, rifiuti clinici, elettronici o industriali, rifiuti altamente tossici e radioattivi. La terra, nostra casa, sembra trasformarsi sempre più in un immenso deposito di immondizia. (…) Questi problemi sono intimamente legati alla cultura dello scarto, che colpisce tanto gli esseri umani esclusi quanto le cose che si trasformano velocemente in spazzatura.
Egli suggerisce perfino il modo di rimediare, un modo che non appare impossibile:
Stentiamo a riconoscere che il funzionamento degli ecosistemi naturali è esemplare: le piante sintetizzano sostanze nutritive che alimentano gli erbivori; questi a loro volta alimentano i carnivori, che forniscono importanti quantità di rifiuti organici, i quali danno luogo a una nuova generazione di vegetali. Al contrario, il sistema industriale, alla fine del ciclo di produzione e di consumo, non ha sviluppato la capacità di assorbire e riutilizzare rifiuti e scorie. Non si è ancora riusciti ad adottare un modello circolare di produzione che assicuri risorse per tutti e per le generazioni future, e che richiede di limitare al massimo l’uso delle risorse non rinnovabili, moderare il consumo, massimizzare l’efficienza dello sfruttamento, riutilizzare e riciclare. Affrontare tale questione sarebbe un modo di contrastare la cultura dello scarto che finisce per danneggiare il pianeta intero, ma osserviamo che i progressi in questa direzione sono ancora molto scarsi.
Papa Francesco è stato un illuminato non solo dal punto di vista teologico, ma anche da quello più propriamente umano, offrendo la sua intelligenza al servizio delle imprese industriali e del sistema economico.
Forse, il suo messaggio può essere raccolto da uomini di buona volontà, ed è forse proprio questa la sfida che Egli, come entità Spirituale, lancia a tutti quelli che hanno a cuore il bene delle presenti e delle prossime generazioni.
I problemi che egli affronta successivamente nell’enciclica, quelli dell’acqua e della biodiversità, sono essenziali, presagiscono il futuro e costituiscono i punti nodali attorno ai quali si deve rivolgere con più attenzione lo sguardo, se si intende cercare di migliorare la sorte comune.
La gioia con cui descrive il Creato deve suonare però come un monito per tutti, perché il Signore ha creato un dono che convoca all’amore universale e non all’avidità dei singoli:
Per la tradizione giudeo-cristiana, dire “creazione” è più che dire natura, perché ha a che vedere con un progetto dell’amore di Dio, dove ogni creatura ha un valore e un significato. La natura viene spesso intesa come un sistema che si analizza, si comprende e si gestisce, ma la creazione può essere compresa solo come un dono che scaturisce dalla mano aperta del Padre di tutti, come una realtà illuminata dall’amore che ci convoca ad una comunione universale. (…) Insistere nel dire che l’essere umano è immagine di Dio non dovrebbe farci dimenticare che ogni creatura ha una funzione e nessuna è superflua. Tutto l’universo materiale è un linguaggio dell’amore di Dio, del suo affetto smisurato per noi. Suolo, acqua, montagne, tutto è carezza di Dio.
Deturpare, inquinare, distruggere l’ambiente naturale è un’offesa rivolta a Dio.
È nella parte dedicata al “paradigma tecnocratico” divenuto modello unico di economia e di modus operandi dell’umanità intera che Papa Francesco diviene pessimista:
Non si può pensare di sostenere un altro paradigma culturale e servirsi della tecnica come di un mero strumento, perché oggi il paradigma tecnocratico è diventato così dominante, che è molto difficile prescindere dalle sue risorse, e ancora più difficile è utilizzare le sue risorse senza essere dominati dalla sua logica. È diventato contro-culturale scegliere uno stile di vita con obiettivi che almeno in parte possano essere indipendenti dalla tecnica, dai suoi costi e dal suo potere globalizzante e massificante. Di fatto la tecnica ha una tendenza a far sì che nulla rimanga fuori dalla sua ferrea logica, e «l’uomo che ne è il protagonista sa che, in ultima analisi, non si tratta né di utilità, né di benessere, ma di dominio; dominio nel senso estremo della parola».[87] Per questo «cerca di afferrare gli elementi della natura ed insieme quelli dell’esistenza umana».[88] Si riducono così la capacità di decisione, la libertà più autentica e lo spazio per la creatività alternativa degli individui. (…) La vita diventa un abbandonarsi alle circostanze condizionate dalla tecnica, intesa come la principale risorsa per interpretare l’esistenza. Nella realtà concreta che ci interpella, appaiono diversi sintomi che mostrano l’errore, come il degrado ambientale, l’ansia, la perdita del senso della vita e del vivere insieme. Si dimostra così ancora una volta che «la realtà è superiore all’idea».
Subito dopo, Papa Francesco torna ad essere moderatamente ottimista, a farsi portatore di speranza:
È possibile, tuttavia, allargare nuovamente lo sguardo, e la libertà umana è capace di limitare la tecnica, di orientarla, e di metterla al servizio di un altro tipo di progresso, più sano, più umano, più sociale e più integrale. La liberazione dal paradigma tecnocratico imperante avviene di fatto in alcune occasioni. Per esempio, quando comunità di piccoli produttori optano per sistemi di produzione meno inquinanti, sostenendo un modello di vita, di felicità e di convivialità non consumistico. O quando la tecnica si orienta prioritariamente a risolvere i problemi concreti degli altri, con l’impegno di aiutarli a vivere con più dignità e meno sofferenze. E ancora quando la ricerca creatrice del bello e la sua contemplazione riescono a superare il potere oggettivante in una sorta di salvezza che si realizza nel bello e nella persona che lo contempla. L’autentica umanità, che invita a una nuova sintesi, sembra abitare in mezzo alla civiltà tecnologica, quasi impercettibilmente, come la nebbia che filtra sotto una porta chiusa. Sarà una promessa permanente, nonostante tutto, che sboccia come un’ostinata resistenza di ciò che è autentico?
C’è solo da augurarsi una rinascita, un aumento della consapevolezza,
Ciò che sta accadendo ci pone di fronte all’urgenza di procedere in una coraggiosa rivoluzione culturale. La scienza e la tecnologia non sono neutrali, ma possono implicare dall’inizio alla fine di un processo diverse intenzioni e possibilità, e possono configurarsi in vari modi. Nessuno vuole tornare all’epoca delle caverne, però è indispensabile rallentare la marcia per guardare la realtà in un altro modo, raccogliere gli sviluppi positivi e sostenibili, e al tempo stesso recuperare i valori e i grandi fini distrutti da una sfrenatezza megalomane.
Egli disegna, al solito, le strade per uscire fuori dal vicolo cieco in cui l’umanità si è ficcata, in capitoli molto interessanti, che dovrebbero leggere accuratamente tutti gli uomini.
L’approfondimento del discorso teologico avviene nelle due encicliche successive: Fratelli tutti e Dilexit nos.
La fraternità è una condizione, anzi una disposizione interiore che si sviluppa nei confronti dell’umanità intera, avvolgendola in un solo abbraccio, affinché nessuno ne venga escluso: “Fratelli tutti scriveva San Francesco d’Assisi per rivolgersi a tutti i fratelli e le sorelle e proporre loro una forma di vita dal sapore di Vangelo. Tra i suoi consigli voglio evidenziarne uno, nel quale invita a un amore che va al di là delle barriere della geografia e dello spazio. Qui egli dichiara beato colui che ama l’altro «quando fosse lontano da lui, quanto se fosse accanto a lui». Con queste poche e semplici parole ha spiegato l’essenziale di una fraternità aperta, che permette di riconoscere, apprezzare e amare ogni persona al di là della vicinanza fisica, al di là del luogo del mondo dove è nata o dove abita.”
Un cuore senza confini, quello di San Francesco, ed è tale ampiezza del bene, che pone al centro il cuore (quello Sacro di Gesù) adottato da Papa Francesco quale vero emblema del Suo pontificato ma anche del suo pensiero teologico e cristocentrico. Si legge nell’enciclica:
“Dio ha creato tutti gli esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e li ha chiamati a convivere come fratelli tra di loro”.
L’attualità ci mette di fronte a una società che semina la mancanza di speranza e suscita la sfiducia costante, nello scontro frontale di opposti interessi, in base ai quali vincere significa distruggere, ed è all’interno di questo contesto che diviene fondamentale la filosofia dello scarto:
“La mancanza di figli, che provoca un invecchiamento della popolazione, insieme all’abbandono delle persone anziane a una dolorosa solitudine, afferma implicitamente che tutto finisce con noi, che contano solo i nostri interessi individuali. Così, oggetto di scarto non sono solo il cibo o i beni superflui, ma spesso gli stessi esseri umani”.
E ancora:
“Certe parti dell’umanità sembrano sacrificabili a vantaggio di una selezione che favorisce un settore umano degno di vivere senza limiti. In fondo, «le persone non sono più sentite come un valore primario da rispettare e tutelare, specie se povere o disabili, se “non servono ancora” – come i nascituri –, o “non servono più” – come gli anziani. Siamo diventati insensibili ad ogni forma di spreco, a partire da quello alimentare, che è tra i più deprecabili”.
Quel che produce il sistema economico odierno è una vera e propria deriva verso cui affonda l’umanità intera:
“Guerre, attentati, persecuzioni per motivi razziali o religiosi, e tanti soprusi contro la dignità umana vengono giudicati in modi diversi a seconda che convengano o meno a determinati interessi, essenzialmente economici. Ciò che è vero quando conviene a un potente, cessa di esserlo quando non è nel suo interesse. Tali situazioni di violenza vanno «moltiplicandosi dolorosamente in molte regioni del mondo, tanto da assumere le fattezze di quella che si potrebbe chiamare una “terza guerra mondiale a pezzi. Questo non stupisce se notiamo la mancanza di orizzonti in grado di farci convergere in unità, perché in ogni guerra ciò che risulta distrutto è «lo stesso progetto di fratellanza, inscritto nella vocazione della famiglia umana», per cui «ogni situazione di minaccia alimenta la sfiducia e il ripiegamento».] Così, il nostro mondo avanza in una dicotomia senza senso, con la pretesa di «garantire la stabilità e la pace sulla base di una falsa sicurezza supportata da una mentalità di paura e sfiducia”.
L’Enciclica parla chiaro, prospettando soluzioni per un mondo migliore:
“Nel mondo attuale i sentimenti di appartenenza a una medesima umanità si indeboliscono, mentre il sogno di costruire insieme la giustizia e la pace sembra un’utopia di altri tempi. Vediamo come domina un’indifferenza di comodo, fredda e globalizzata, figlia di una profonda disillusione che si cela dietro l’inganno di una illusione: credere che possiamo essere onnipotenti e dimenticare che siamo tutti sulla stessa barca. Questo disinganno, che lascia indietro i grandi valori fraterni, conduce «a una sorta di cinismo. Questa è la tentazione che noi abbiamo davanti, se andiamo per questa strada della disillusione o della delusione. […] L’isolamento e la chiusura in se stessi o nei propri interessi non sono mai la via per ridare speranza e operare un rinnovamento, ma è la vicinanza, è la cultura dell’incontro. L’isolamento, no; vicinanza, sì. Cultura dello scontro, no; cultura dell’incontro, sì”.
I titoli dei capitoli successivi sono quantomai espliciti sul loro contenuto: “Un estraneo sulla strada”, “Pensare e generare un mondo aperto”, e all’interno di questi, i sottotitoli, che esplicano lo scavo teologico e storico-antropologico dell’enciclica, “Il valore unico dell’amore”, “La progressiva apertura dell’amore”, “Società aperte che integrano tutti”, “Andare oltre un mondo di soci”, “Amore universale che promuove le persone”. Poi, l’approfondimento, in “Dialogo e amicizia sociale”, “Percorsi di un nuovo incontro”, “Le religioni al servizio della fraternità del mondo”: tutti quanti insieme i capitoli costituiscono il programma di un percorso individuale e collettivo da intraprendere, perché ci sono le soluzioni per un mondo migliore, sembra volerci dire Papa Francesco, non bisogna mai abbandonare la speranza, la vera speranza, non bisogna farsi irretire dalle sirene di un sistema che vuole farci credere nel buio, nell’impotenza.
Infine, l’enciclica “Dilexit nos” che chiude idealmente il ministerio di Papa Francesco.
Scrive Monsignor Bruno Forte nell’introduzione:
“La Lettera Enciclica Dilexit nos, Sull’amore umano e divino del Cuore di Gesù Cristo, pubblicata il 24 ottobre 2024, nasce dall’esperienza spirituale di Papa Francesco, che avverte il dramma delle enormi sofferenze prodotte dalle guerre e dalle tante violenze in corso e vuol farsi vicino a chi soffre proponendo il messaggio dell’amore divino che viene a salvarci. L’Enciclica proprio così offre la chiave di lettura dell’intero magistero di questo Papa, come ci fa capire lui stesso: “Ciò che questo documento esprime permette di scoprire che quanto è scritto nelle Encicliche sociali Laudato si’ e Fratelli tutti non è estraneo al nostro incontro con l’amore di Gesù Cristo, perché, abbeverandoci a questo amore, diventiamo capaci di tessere legami fraterni, di riconoscere la dignità di ogni essere umano e di prenderci cura insieme della nostra casa comune”.
Lungi dall’essere un magistero “schiacciato” sul sociale, come a volte è stato maldestramente inteso, il messaggio che questo Papa ha dato e dà alla Chiesa e all’intera famiglia umana nasce da un’unica sorgente, presentata qui nella maniera più esplicita: Cristo Signore e il Suo amore per tutta l’umanità. È la verità per cui Jorge Mario Bergoglio ha giocato tutta la Sua vita.”
Monsignor Bruno Forte esplicita proprio quello che lo scrivente vuole attestare, e cioè che Papa Francesco nelle sue encicliche ha compiuto il percorso iniziato da San Karol e da Papa Benedetto XVI riportando la Chiesa al cristocentrismo e al Sacro Cuore di Gesù, cioè all’Amore che Dio ha espresso per l’uomo. Che cos’è l’Incarnazione se non il Mistero mediante cui Dio decide di sentire come sente l’uomo?
Monsignor Bruno Forte esplicita la posizione teologica di Papa Francesco: che la carità e l’amore portano alla fratellanza, alla capacità di accogliere tutta l’umanità sofferente e ravvivano la speranza di un mondo migliore grazie all’Amore irradiante dal Cuore Sacro di Gesù:
“Com’è detto nella quinta parte dell’Enciclica, intitolata Amore per amore, il frutto più profondo della devozione al cuore di Cristo è di farci sentire amati da Lui e resi capaci di amare in unione al Suo Cuore umano e divino. San Charles de Foucauld diceva: “La carità deve irradiare dalla fraternità, come irradia dal cuore di Gesù”. È questa convinzione che lo ha reso “fratello universale, perché lasciandosi plasmare dal Cuore di Cristo, voleva ospitare nel suo cuore fraterno tutta l’umanità sofferente”.
Il ruolo decisivo della Chiesa risiede nella missione di comunicare Cristo non come se fosse solo una relazione personale e intima, bensì nel saper recarla fuori, nella comunità. Una teologia siffatta a mio personale avviso avrebbe concepito un’ulteriore enciclica che avrebbe previsto una relazione sempre più stretta tra le religioni, verso un ecumenismo in grado di comunicare la speranza, la comunione fraterna, l’Amore.