I Folkisciotte, conosciuta folk band andriese, qualche giorno fa hanno celebrato il loro scioglimento con un concerto conclusivo svoltosi presso lo spazio Hublab. Pubblichiamo il ricordo commosso di un fan, oltre che amico, che ha seguito la band fin dai tempi dei suoi esordi.

Quella sera in cui si sciolsero i Folkisciotte io non c’ero, non solo perché non avrei potuto esserci, ma soprattutto per sfuggire alla responsabilità dell’esserci. Un congedo non può essere lieve e non solo perché i congedi sono materia greve, ma soprattutto per il significato ontologico che alcuni commiati si mettono addosso.

I Folkisciotte cominciarono a fare musica nel 2004, un folk rumoroso e rudimentale, destinato a raffinarsi con gli anni, all’inizio non erano una band, ma un pretesto, il catalizzatore di un certo tipo di umanità che si riconosceva nei medesimi riferimenti culturali e che era cresciuta alla stessa murgiana latitudine. Col susseguirsi dei mesi, le velleità musicali cominciarono a farsi più concrete ed efficaci, fu allora che la musica cominciò a inseguire le parole, a sostenerle e a far loro da contrappunto, le parole divennero più nitide, i concetti più raffinati e le storie più appassionanti. Erano nati i Folkisciotte.

Non hanno stravolto i canoni musicali, non hanno scalato le classifiche e non si sono consegnati al successo su larga scala, hanno solo imposto la colonna sonora ad una classe di ventenni che li ha seguiti per l’Italia, è andata in vacanza sulle loro note e ha flirtato con le loro canzoni. Sta tutto qui il senso di ineluttabile compartecipazione che definisce questo commiato, un momento corale al quale gli uditori non possono sottrarsi, un goliardico contenitore vuoto che a fine serata si colma del senso che ogni partecipante gli avrà attribuito. Un funerale laico, un enorme party a conclusione di una memorabile esperienza erasmus oppure l’ultima volta in cui giaci a fine agosto, con la ragazza che ha inebriato la tua vacanza. Al netto di tutte le metafore resta una generazione di giovani concittadini che si portano con garbo e senza accalcarsi verso i quaranta e ripensano senza nostalgia a questo ultimo decennio delle loro vite.

Per quello che mi riguarda, i Folkisciotte non si sono sciolti, certamente non perché sono diventati il totem della mia giovinezza, ma perché hanno incarnato egregiamente il ruolo di battistrada dettando l’andatura delle esperienze musicali che mi hanno coinvolto, mi hanno spronato accidentalmente a mettere in piedi una band piena di affinità e si sono prestati con vis comica all’atavico gioco del “gruppo musicale rivale” in una novella diatriba Beatles-Rolling Stones sotto il sole del tavoliere. È stato molto bello avere di fronte gli stessi miti musicali, ma alla destra, come compagni di banco i Folkisciotte, sempre qualche metro avanti, come si addice ai bravi gregari, ma puntualmente pronti alla volata come si conviene ad i grandi campioni.

Una loro celebre canzone narra l’epopea di una caccola di fumo che, libratasi in volo dalla combustione della sua sigaretta, assapora la libertà all’aperto, un breve volo dai luoghi angusti della cartina, agli ampi spazi della discesa danzante in balia delle correnti. Quel volo è un’enorme beffa, un’illusione di libertà che si scontrerà presto al suolo, realtà imprescindibile, ma in quel breve volo la caccola non precipita, trova lo spazio e il tempo di danzare. La caccola ha burlato il destino e, pur nei secondi contati, ha fatto del suo volo danzante un capolavoro, scrivendo una storia sovrapponibile a quella dei Folkisciotte, non certo perché i nostri musicanti hanno fatto anch’essi del loro volo un capolavoro, ma semplicemente perché anche loro, prima della fine hanno danzato, ma soprattutto hanno fatto danzare.