Durante questo primo mese a Roma, trovandomi dipendente dai mezzi pubblici, mi sono scoperta a osservare più volte i cartelloni delle cosiddette “pubblicità progresso”, campagne pro o contro qualcosa, che infestano bus e metro. Una in particolare ha catturato la mia attenzione e continua a pungolarmi ogni volta che la vedo. È la campagna “Riconosci la violenza” lanciata dal Dipartimento per le Pari Opportunità e volta a sensibilizzare gli individui sul tema della violenza di genere.
Mi sono chiesta spesso cosa mi turbasse di questi cartelloni: in apparenza possono essere considerati tranquilli, non ritraggono immagini violente, non hanno un tono particolarmente acceso. Perché allora continuavo a guardarli sconcertata?
Poi l’ho capito.
Le immagini, tutte composte allo stesso modo, mostrano una donna dall’aria felice accanto a un uomo il cui viso è coperto. Simbolico, dal momento che la campagna si centra sullo slogan “La violenza ha mille volti. Impara a riconoscerla”. E il testo di ogni cartello è, per l’appunto, un messaggio che si rivolge direttamente alle donne. Un esempio: “Hai solo un modo per cambiare un fidanzato violento. Cambiare fidanzato”.
Ho capito dunque che ciò che mi scuoteva profondamente di questa campagna non era il tema in sé – delicato quanto mai – ma il centro dell’attenzione. Ho scritto poche righe fa che la campagna è volta a sensibilizzare gli individui. Mi correggo. La campagna è volta a sensibilizzare le donne. Dov’è lo spazio per gli uomini, i presupposti fautori di queste violenze?
Questa non è che l’ennesima dimostrazione che stiamo ancora vivendo in quella che gli anglofoni chiamano rape culture, cultura dello stupro: la società tende a biasimare e a mettere in guardia la vittima, piuttosto che concentrarsi sul carnefice. È un vortice in cui, a mio parere, stiamo ancora pericolosamente scivolando, più che tirarcene fuori.
In un Paese dove ancora pochi conoscono la differenza tra un complimento e una molestia, penso che noi donne non dovremmo mai smettere di sottolineare con forza i nostri diritti, che non dovremmo avere paura di definirci femministe, perché femminismo non è una brutta parola, significa soltanto che vogliamo veder compiuta la tanto conclamata “parità”.
Nel mondo, nelle nostre società, e nel nostro piccolo manca ancora uno spazio per l’educazione. Per tutta la vita ho sentito – e sono sicura di non essere la sola – adulti e anche coetanei che mi dicevano: “Se ti vesti così ti ritrovi nei guai, guarda come andava in giro quella ragazza che hanno stuprato”, “È normale che le sia successo, camminava di notte da sola”, “Era stata lei a dare speranze a quel suo amico, non può lamentarsi”, e così via. Trovo che queste affermazioni siano agghiaccianti, terribili. Trovo indispensabile che si sovverta quest’ordine.
Una ragazza dovrebbe poter vestire come vuole, andare in giro da sola a qualsiasi ora, attorniarsi di tutti gli amici maschi che desidera. Senza alcuna limitazione. Senza alcuna paura.
Vivo in una società che mi insegna ogni giorno cosa fare per non essere stuprata.
Sogno di vivere in una società dove la norma sia educare a non stuprare.

Marica Di Teo


[ Foto Tg24.sky.it ]

 


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