Si parla tanto d’immigrati africani che vengono in Italia, si parla un pochino di immigrati italiani che vanno in Nord Europa, non si parla affatto dei giovani che dalla nostra penisola emigrano in Albania. Eppure il flusso di gente che si stabilisce nel paese delle aquile inizia ad essere apprezzabile. A quanto pare l’Adriatico del Sud è diventato un mare a doppio senso di circolazione, percorso non più solo dalla costa Est a quella Ovest, ma anche viceversa. E noi quasi non ce ne eravamo accorti.
A segnalarcelo per fortuna è da poco arrivato il docufilm “Rotta Contraria”, di Stefano Grossi. Se nel 2012 “La Nave dolce” di Daniele Vicari ci raccontava dell’incredibile traversata della Vlora, che nel 1991 portò 20 mila albanesi da Durazzo a Bari, oggi “Rotta contraria” ribalta la prospettiva. E ci riesce particolarmente bene anche grazie a fortunate coincidenze. Gli italiani che vivono, studiano o lavorano in Albania oggi sono stimati intorno ai 20 mila, proprio tanti quanti erano gli albanesi arrivati con la Vlora. E se 20 mila sembrano pochi, basta tenere conto del fatto che su una popolazione di 2,5 milioni di persone (quella albanese) la loro incidenza è quasi dell’1%, la stessa che formano i 480 mila albanesi stabilitisi in Italia.
“Oggi l’Albania è un cantiere a cielo aperto, e Tirana il simbolo di una nazione aggressiva e vitale, piena di forze fresche da gettare a profusione nel calderone del libero mercato e della new economy – dall’edilizia pubblica e privata al marketing finanziario e telefonico”, si spiega nella sinossi del film. E proprio al settore dei call center, scelto dal regista come punto di vista per raccontare l’intero fenomeno migratorio in questione, è dedicata la parte centrale del lavoro.
L’intuizione è felice visto che quello del marketing telefonico è un “settore strategico del mercato del lavoro albanese, soprattutto giovanile, e si lega strettamente all’Italia, vicino geografico, ex colonizzatore e ora anche bacino inesauribile di utenti di offerte telefoniche”. A comporre il grosso della narrazione sono poi le storie personali rintracciate da Grossi. “Chi sono questi ragazzi albanesi di cui conosciamo solo le voci, tradite da quel loro cantilenato accento? E che pensano dei loro colleghi italiani, con cui da qualche anno convivono nei medesimi call center e a volte condividono il lavoro in cuffia? E poi, soprattutto: qual è il mondo – e l’idea di mondo – che si muove grazie a loro ma soprattutto dietro di loro?”, questi i quesiti a cui il documentario prova a dare risposta.
A rispondere sono i protagonisti stessi di questo nuovo corso albanese, in prima persona. Ragazze e ragazzi, italiani e albanesi, accomunati dalla travagliata ricerca di un futuro tutto sommato stabile, e tuttavia divisi dalla consapevolezza con cui provano a farlo. “Gli albanesi, nella loro navigazione, sognano ancora di trovare qualcosa oltre l’orizzonte” ha spiegato Grossi intervistato da Open, “gli italiani invece sanno che quel qualcosa, ammesso che sia mai esistito, è già passato”. A ciò si aggiunga che lavorare in un call centre in Albania vuol dire migliorare il proprio tenore di vita, in Italia no.
Ecco che se gli albanesi 30 anni fa emigravano da noi con la speranza di “fare fortuna”, oggi gli italiani emigrano in Albania con la rassegnazione che “fare fortuna” sia impossibile, dunque conviene accontentarsi di una vita normale, nel Bel Paese a molti preclusa.
Il merito più grosso di “Rotta Contraria” allora, al di là dell’accuratezza con cui racconta il fenomeno che indaga, è la nettezza con cui in un’oretta di pellicola riesce ad annientare tutta la retorica sull’immigrazione – quella per cui “vengono tutti in Italia”, “ci rubano il lavoro” – andata di moda negli ultimi tempi. Il fatto che ormai da un paio d’anni siano più gli italiani che emigrano che gli stranieri che arrivano in Italia era più o meno noto. Ma vedere quegli italiani che si trasferiscono non in Svezia, Germania o Danimarca, ma in Albania, il posto da cui arrivavano i disperati ammassati sulle navi e che trattavamo come i cugini sfigati, è lo schiaffo in faccia di cui l’Italia aveva bisogno. E si spera che colpisca molti.