Non si arresta la “protesta delle mascherine”

“Una vittoria di Pechino è una vittoria per l’autoritarismo di tutto il mondo” così ha scritto su un editoriale del “Times” Joshua Wong, 22 anni, identificato come leader della protesta degli ombrelli del 2014 e rilasciato, dopo due mesi di detenzione, lunedì 17 giugno, ma già pronto ad unirsi alla protesta pacifica che dai primi giorni di giugno sta marciando per le strade di Hong Kong.

Poiché si tratta di una realtà tanto distante dalla nostra quotidianità è utile ripercorrere brevemente insieme almeno le tappe fondamentali della storia recente e meno recente.

Hong Kong per ben 156 anni è stata una colonia britannica e solo nel 1997 è stata “restituita” alla Cina la quale ha siglato un accordo in cui si impegnava a garantire le libertà civili e i diritti umani alla popolazione dell’isola per 50 anni, ossia fino al 2047. Nacque così la prima regione amministrativa speciale del paese e quello che emblematicamente è stato definito il principio “One country, Two sistem”. Infatti Hong Kong attualmente può essere definita un semi-democrazia, perché può eleggere solo una parte dei suoi rappresentanti, mentre gli altri vengono nominati secondo le direttive di Pechino, e mantiene differenze a livello giuridico ed economico. Vige infatti il Common Law e l’autonomia economica e monetaria, di cui Hong Kong gode, le ha permesso di diventare un centro finanziario globale: basti pensare che la sua borsa è tra le prime cinque al mondo.

Bene, in questa isola tanto “occidentale”, se vogliamo definirla così, sono sempre più pressanti i tentavi di intrusione della Cina. E quasi ciclicamente la popolazione scende in piazza e si fa sentire forte nella sua volontà di difendere le proprie libertà.

Successe nel 2003, contro una legge sulla sicurezza nazionale che avrebbe privato Hong Kong di autonomia e che per questo fu ritirata, e successe nel 2014 con la Protesta degli ombrelli (simbolo della protezione che il governo dovrebbe garantire rispetto alle ingerenze della Cina) quando per 79 giorni in piazza con magliette gialle la popolazione chiese a gran voce la democrazia, protesta che purtroppo fallì.

Succede anche in questi giorni.

Giugno 2019 la popolazione scende in piazza con ombrelli e mascherine per protestare contro il disegno di legge che faciliterebbe l’estradizione verso la Cina di tutti i sospetti che risiedono ad Hong Kong, Taiwan e Macao.

Per i manifestanti questa legge minaccia l’indipendenza di Hong Kong, e avrebbe come vero scopo quello di rafforzare il potere politico del presidente Xi Jinping facilitando la cattura ed estradizione di avversari politici del regime.

Un milione di persone (per intenderci un abitante di Hong Kong su sette) sfila per le strade sfidando lo spray al peperoncino, i proiettili di gomma, le cariche della polizia e i getti di acqua. Si tenta di trasformare una protesta pacifica in una rivolta, ma senza successo, anche se il capo del Governo Carrie Lam la definisce ugualmente “una rivolta organizzata”, cosa che comporterebbe circa dieci anni di carcere in caso di arresto.

Definita come “la protesta delle mascherine” perché i giovani le indossano per proteggere la propria identità: “Siamo pacifici ma nascondiamo il volto perché abbiamo paura della repressione”.

Non è facile in un Paese dove la privacy è praticamente inesistente non solo trovare il coraggio, ma anche avere modo di organizzare una protesta di queste dimensioni.

Le strategie per non essere tracciati ci sono tutte: uso di Telegram al posto di Whatsapp, utilizzo di parole in codice come “picnic” per indicare una riunione, uso di carte prepagate, biglietti della metro al posto di abbonamenti nominali. E probabilmente tutto questo non basta visti i sofisticatissimi sistemi di riconoscimento facciale di ultima generazione, elaborati proprio in Cina.

Nonostante questo, sono scesi per le strade a manifestare per un principio. I giorni passano, i numeri e la natura della protesta vengono mistificati dalla polizia e dai giornali della Cina continentale mentre il numero dei feriti sale fino a 81, 11 gli arrestati.

E finalmente una parziale vittoria. Carrie Lam decide di sospendere i lavori sul disegno di legge a data da destinarsi, anche se continua a difenderla sul piano teorico e parla di “malintesi” che avrebbero generato malcontento popolare.

Tuttavia un rinvio sine die non ha certo rassicurato i cittadini di Hong Kong. Il 16 giugno a Victoria Square, pronti ad affrontare il caldo inclemente, sono scesi in piazza quasi il doppio dei manifestanti, 2 milioni, tra studenti, anziani e famiglie con passeggini.

Molti portano dei fiori bianchi in segno di lutto nel luogo dove è precipitato un manifestante,  nel tentativo di appendere uno striscione “Make love! No Shoot! No extradition to China”.

Sono pacifici, ma risoluti: indossano maglie nere e portano striscioni in cui accusano la Cina di uccidere gli abitanti di Hong Kong e con una sola voce chiedono il completo ritiro della legge, le scuse (giunte ieri, ma solo “verbalmente”) e le dimissioni di Carrie Lam; chiedono anche che qualcuno si assuma la responsabilità per le violenze subite dai giovani scesi in piazza ed il rilascio dei manifestanti arresti.

E la protesta si allarga fino a Tapei, in Taiwan, altra regione a regime speciale, affinché il proprio governo resista di più al regime autoritario cinese perché c’è la consapevolezza che ciò che accade ad Hong Kong è destinato ad accadere anche altrove.

Pechino ha ribadito il suo sostegno incondizionato nei confronti della governatrice che il 16 giugno ha diramato un comunicato di scuse da parte del governo di Hong Kong nei confronti dei cittadini. Il primo della storia.

Tuttavia la proposta di legge è ancora lì, e le scuse per iscritto non sono sufficienti.

Lunedì 17 giugno, il Civil Human Right Front ha indetto la protesta detta delle “tre sospensioni” (non lavorare, non andare a scuola, non acquistare nulla) per ottenere la completa abrogazione del progetto di legge, chiedere nuovamente il rilascio dei manifestanti arrestati, le dimissioni del capo di governo, e chiedere alla polizia e alla Lam di ritirare pubblicamente le descrizioni che hanno fatto delle proteste del 12 giugno, definite da loro come «rivolte».

Insomma un bel braccio di ferro quello tra la popolazione e il governo di Pechino che sembra voler trattare la questione come un problema di politica interna, anche se oramai è sempre più chiaro che tali proteste vanno ben oltre la mera politica interna, coinvolgendo sia l’economia che la politica estera.

Intanto la popolazione della Cina continentale è tenuta all’oscuro di ciò che accade ad Hong Kong. Probabilmente perché non è poi un gran segno di forza per il presidente Xi Jinping il fatto che il governo cinese sia costretto ad arretrare davanti alla forza della popolazione.

I regimi autoritari si basano essenzialmente sulla repressione netta di ogni manifestazione di dissenso, ma quando le voci sono tali e tante da formare un unico coro l’impresa di metterle a tacere si fa più ardua, specie se hai gli occhi del mondo puntati addosso come nel caso di Hong Kong che ancora sfugge alla sua egemonia per via di quegli accordi risalenti al 1997. Ma quando i cinquant’anni scadranno, cosa ne sarà di quella popolazione?

C’è da augurarsi che questo popolo, la cui cultura occidentale è inscindibile dalle tradizioni orientali, possa sempre essere capace di lavorare come un solo uomo per proteggere la propria unicità e indipendenza.