Si può vivere senza muri? Beh, no: a parte la “casa molto carina senza soffitto e senza cucina”, qualsiasi gruppo umano, chiamato a condividere uno spazio, ha bisogno di edifici nei quali i confini materiali stabiliscono limiti, ruoli, compiti e custodiscono dal freddo e dai pericoli. Muro viene da munire, ossia proteggere, ma anche fortificare; e che la protezione delle cose più vere e delle persone più amate ci rende forti, è fuori dubbio.

Dallo stesso verbo, però, viene moenia, la cinta difensiva delle città antiche, confine così netto tra l’intra e l’extra da generare caste e conflitti, fino ad inibire la cortesia e la solidarietà nei rapporti umani,

Una settimana fa circa ha compiuto trent’anni uno dei gesti più famosi e belli della storia del Novecento, questo secolo difficile, complicato, insanguinato, oscuro: la caduta del muro di Berlino gridò e grida che l’identità di un popolo, di un paese si costruisce quando si ha il coraggio di abbattere quei muri che nel tempo diventano mura difensive inespugnabili.

Abbiamo bisogno di più ponti: i muri stanno diventando una scusa per vivere tranquilli; la privacy ha sdoganato l’intoccabilità dei confini; il terrore ci fa percepire l’altro come un nemico. Si badi bene, il terrore e non la paura: la paura della diversità altrui è normale e sana, ma va accolta seriamente e senza spiritualismi sulla fratellanza universale. Questi, nella misura in cui disilludono e deludono, generano terrore, quindi chiusura ermetica, quindi violenza.

Certo, ultimamente in Italia anche i ponti lasciano a desiderare: sarà il segno di un’instabilità globale? Sicuramente non si può smettere di progettare, di edificare, di coltivare una cultura dall’apertura e della comunicazione. La parola ponte è legata a due termini del greco antico, cioè patos e pontos, “sentiero” e “mare”: significa che non c’è contesto, di terra o di acqua, suscettibile di chiusura. Quando ciò accade, sicuramente ne usciamo illesi ed integri, ma non realmente protetti, come quando amiamo e la mescolanza con l’altro ci salva, perché ci sottrae all’implosione.

Lo dice sempre papa Francesco, il pontefice, il chiamato (appunto) a fare ponti. Per cui prima di prendere le sue frasi ed usarle come slogan, occorrerebbe chiedersi perché lo si sta facendo: per affossare qualcuno? Per difendere idee? Per trasferire alle nostre posizioni di piccoli estorsori di ragioni assolute quel fantomatico potere, che anche quando ci si proclama “dalla parte di Francesco” non abbandona mai un certo modo di intendere l’autorità ecclesiale? In tal caso meglio lasciar stare il pontefice, non sarebbe giusto usarlo per edificare mura. Non sarebbe coerente, né rispettoso della natura del suo ruolo, sul quale occorre leggere, studiare, meditare e pregare molto prima di parlare. O digitare.

Non basta dichiararsi aperti, moderni, credenti, filopapisti, filoimmigrati e filantropi in genere, ecologisti, animalisti per convincersi e convincere di essere costruttori di ponti. Occorre la scelta quotidiana di scavare brecce nei muri fisiologici e di mettere in discussione i confini di parole, opinioni, convinzioni, anche della immagine; occorre farsi materialmente ponte, luogo di passaggio, con la pazienza di stare in tensione tra gli opposti e la sapienza di considerare l’unità prevalente sul conflitto. Come dice, sempre, il pontefice Francesco.

È un lavoro duro. Ma se alla fine di ogni giornata avremo demolito un po’ delle mura del nostro io fortificato, probabilmente continuerà a brillare nel nostro quotidiano la gioia di Berlino. Quella che serve sul larga scala per tentare di recuperare umanità. Tutto passa dalle piccole scelte, sempre.

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