Si chiama PESCO e sta muovendo i primi, faticosi passi, dopo 60 anni.

Doveva nascere per prima. Paradossalmente, è nata per ultima.

Rappresenta l’orizzonte inesplorato dell’Integrazione europea, nonché uno dei settori, insieme alle Politiche Ambientali, in cui è più forte la necessità di cooperazione tra gli Stati membri.

La Difesa europea sta muovendo i primi, faticosi passi, dopo 60 anni.

La firma storica che ne ha dato ufficialmente il via è arrivata nel novembre dello scorso anno con la notifica congiunta di 25 dei 28 membri all’Alto Rappresentante Mogherini con la richiesta di aderire a quella che, in gergo comunitario e tecnico, è chiamata PESCO, ovvero una Cooperazione rafforzata nel settore della difesa.

La strada tuttavia è ancora in salita come d’altro canto lo è sempre stata per la Cenerentola tra le politiche comuni.

Era il 27 maggio del 1952 – appena un anno dopo il Trattato istitutivo della CECA – quando, sempre a Parigi, i sei fondatori dell’attuale Unione Europea firmavano per la nascita della Ced: la Comunità Europea di Difesa.

Per l’Italia c’era il Presidente del Consiglio De Gasperi, assieme ai Padri dell’Europa Adenauer e Schuman.

Le spinte per la realizzazione del sogno degasperiano vennero dalla situazione internazionale dei primi anni 50. La Germania federale reclamava un esercito, le ovvie paure francesi per il riarmo tedesco spinsero i fondatori a provare ad ingabbiare l’esercito tedesco in un esercito europeo.

Ma, nonostante la firma di Parigi, due anni dopo la Ced tramontò senza essere ratificata dai parlamenti nazionali a causa delle opposizioni francesi. Il sogno di De Gasperi, ovvero una difesa comune che portasse ad una più forte integrazione politica, moriva li.

Così è stato per quasi 60 anni, almeno dal punto di vista operativo visto che, almeno sulla carta, la difesa europea compare per la prima volta nel Trattato di Maastricht del 1992.

La Difesa Comune Europea, tecnicamente Politica di Difesa e di Sicurezza Comune è parte della PESC, ed è uno strumento della Politica Estera Comune.

È finalizzata alla gestione delle crisi e alla prevenzione dei conflitti avvalendosi di strumenti militari e civili.

Nelle intenzioni dei firmatari del Trattato istitutivo dell’Unione europea, la PEDS sarebbe dovuta evolversi fino a contare un vero e proprio esercito europeo.

Ma le contrarietà soprattutto britanniche hanno lasciato la difesa comune in posizione marginale rispetto alle altre politiche comuni e alla stessa PESC, la cui assenza sostanziale ha troncato lo sviluppo di una difesa europea.

Già nel Trattato di Amsterdam però furono incorporate le Missioni di Petersberg, ovvero contingenti di uomini da impiegare in missioni umanitarie e civili.

La presenza europea in zone di conflitto quali Balcani, Africa e Medio Oriente ha contribuito a far crescere il prestigio dell’Unione Europea e la sua capacità, riconosciuta da molti attori internazionali, di gestire situazioni di crisi e post-conflitti.

Lentamente, però, la Difesa comune procedeva pur tra le difficoltà legate alle contrarietà britanniche e al dualismo, scontato, con la Nato.

Nel 2003 l’allora Alto Rappresentante Solana presentava la “Strategia Europea in materia di sicurezza”, una “Europa sicura in un mondo migliore”.

Nel 2004 veniva istituita l’Agenzia Europa per la Difesa, con sede a Bruxelles, e nel 2007 diventavano operativi (pur senza essere stati mai dispiegati) i Battlegroups, ovvero una forza militare multinazionale composta da 1500 uomini addestrati e pronti ad essere inviati in caso di necessità in zone di crisi in pochi giorni.

Ma è stato con il Trattato di Lisbona del 2009 che la Politica di Difesa Comune ha ottenuto le novità più significative.

A partire dalla creazione del Servizio Europeo per l’Azione Esterna, il servizio diplomatico dell’Unione guidato dall’Alto Rappresentante per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza.

Altra innovazione di rilievo è la clausola di difesa reciproca, articolo 42 paragrafo 7. Questa clausola prevede che, in caso di attacco armato subito da uno Stato membro sul proprio territorio, gli altri membri sono tenuti a prestargli aiuto, in conformità con l’articolo 51 della Carta ONU.

Il Trattato di Lisbona prevedeva anche la possibilità, all’articolo 42 paragrafo 6 (disciplinato nello specifico dal protocollo 10) che “Gli Stati membri che rispondono a criteri più elevati in termini di capacità militari e che hanno sottoscritto impegni più vincolanti in materia ai fini delle missioni più impegnative instaurano una cooperazione strutturata permanente nell’ambito dell’Unione”.

Nondimeno, per quasi dieci anni la PESCO è rimasta ferma sulla carta, tanto da essere definita da Juncker come “la bella addormentata”.

In effetti la crisi economico finanziaria e lo scetticismo di alcuni membri della Nato circa una cooperazione che potesse togliere spazio e fondamentalmente soldi al Patto Atlantico, hanno lasciato la difesa europea in limbo istituzionale e operativo almeno fino agli sviluppi internazionali che hanno visto nel 2016 il referendum britannico e il ciclone Donald Trump.

L’uscita del Regno Unito – che si è sempre opposto alla difesa comune – dall’Unione, insieme alla complessità e alla molteplicità di minacce alla sicurezza degli europei frutto del nuovo scenario globale, hanno convinto gli Stati membri a svegliare, finalmente, la bella addormentata.

La firma che ha finalmente avviato la “Permanent Structured Cooperation”, (Pesco), è avvenuta nel Consiglio dell’11 dicembre 2017 con la Decisione, come già anticipato, di 25 dei 28 stati membri di avviare 17 progetti in ambito difensivo – progetti che spaziano dalla possibilità di partecipare a operazioni militari a investimenti coordinati nella difesa e sinergie industriali.

Si tratta di una forma di Integrazione nota con l’espressione “a più velocità”: alcuni Stati membri hanno deciso di non aderire alla Pesco ma potranno farlo successivamente.

La Politica di Difesa Comune può contare, oltre alla Cooperazione Strutturata Permanente (i cui primi 15 progetti prenderanno il via in questi mesi), anche su una “Revisione Coordinata Annuale sulla Difesa- denominata CARD, e di un Fondo Europeo per la Difesa, varato nel 2016 dalla Commissione al fine di coordinare ed integrare gli investimenti nazionali per la ricerca nel settore della difesa.

Ma perché proprio adesso dopo che per 60 anni si è quasi avuto paura di parlare di Difesa Europea?

Le cause che hanno portato all’accelerazione della Difesa comune sono molteplici. Oltre a Brexit, a pesare sulla scelta degli stati membri è stata l’opinione pubblica europea che, da un lato chiede all’Europa di intervenire meno in un alcuni settori di competenza nazionale, ma che, in controtendenza, in tema di difesa e sicurezza chiede più Europa e più cooperazione e integrazione.

Il perché è facile da individuare. I pericoli alla sicurezza degli europei sono impossibili da gestire dai singoli stati nazionali. Parliamo di cyber attacchi, di minacce ibride, di traffici illeciti, terrorismo e immigrazione. Nessuno, a causa delle complessità delle minacce e a motivo delle ristrettezze di bilanci nazionali in tema difesa, può fare da solo.

Coordinare gli investimenti nel settore difesa, riducendo la diversificazione dei sistemi d’arma europei, ha lo scopo principale di spendere insieme per spendere meglio.

Chiaramente, la prospettiva, finalmente concreta, di paesi europei che coordinano le loro spese militari, spaventa gli Stati Uniti e in particolare Trump, la cui comparsa sulla scena è stato l’altro fattore accelerante per l’avvio definitivo della difesa europea.

Da quando è stato eletto Trump non ha smesso di richiamare gli europei ai loro impegni e a mettere più soldi nei bilanci per finanziare la Nato. L’ultima stoccata è arrivata in occasione dei 100 anni dalla fine della Prima Guerra Mondiale.

Davanti a Macron che auspicava la nascita di un esercito europeo, obiettivo però ben lontano al momento, Trump rispondeva via tweet: “L’Europa cominci a pagare per la difesa atlantica, sovvenzionata alla grande dagli Stati Uniti”.

È evidente l’irritazione del tycoon americano per gli sviluppi di una difesa europea che non solo potrebbero portare a un indebolimento scontato della Nato, ma sarebbero un danno per l’industria bellica americana.